Il caso Tamam Shud

La prima volta che ho letto di questo misterioso e incredibile caso di omicidio irrisolto, non ho potuto fare a meno di pensare a un giallo di Agatha Christie. Un caso che certamente Hercule Poirot avrebbe risolto con successo, e che invece è conosciuto come uno dei più profondi misteri dell’Australia. Perché è proprio vero, la realtà è piena di eventi che sembrano opera di scrittori un po’ troppo confusi.

La storia comincia la sera del 30 novembre 1948, sulla spiaggia di Somerton, in Australia meridionale; due coppie che passeggiano notano in orari diversi un uomo ben vestito, sdraiato sulla sabbia, con la testa appoggiata a delle rocce. Pensano che si sia addormentato, oppure che abbia bevuto, e passano oltre in fretta.
Il mattino successivo, un nuotatore trova l’uomo nella stessa posizione, immobile, e capisce di trovarsi davanti a un cadavere.

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Il luogo del ritrovamento del cadavere (la x indica il punto esatto)

Gli inquirenti annotano una serie di dettagli con uno scrupolo che avrebbe reso felice Poirot; l’uomo è alto circa un metro e ottanta, ha una corporatura da ballerino, occhi nocciola, capelli biondo-rossiccio, un po’ grigi sulle tempie, e le mani non consumate da lavori manuali.
In tasca ha un biglietto dell’autobus usato da Adelaide a St Leonards, un biglietto del treno non utilizzato da Adelaide a Henley Beach, un pettine americano, dei chewing gum, un pacchetto di sigarette Army Club contenente sigarette di marca più costosa (di solito è il contrario) e dei fiammiferi.
I suoi abiti sono di buona qualità, un po’ pesanti per il clima di quei giorni, ma il dettaglio che spicca è che da ogni indumento sono state rimosse le etichette; manca inoltre il cappello, cosa insolita per l’epoca.
L’uomo non ha con sé alcun documento, e le sue impronte digitali non esistono nei registri australiani; la polizia propende inizialmente per un malore o un suicidio.
L’autopsia rivela una serie di congestioni a stomaco, duodeno, fegato e cervello; nello stomaco è presente del sangue mescolato a cibo, la milza è molto ingrossata. Il patologo ipotizza che si sia trattato di avvelenamento, forse da digitale, ma nessuna sostanza estranea è rilevata nel corpo.
Una fotografia dell’uomo viene diffusa e in molti sostengono di riconoscerlo, ma nessuna segnalazione si rivela giusta; nel frattempo, in attesa di identificazione, la polizia crea un calco in gesso del corpo.

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Una prima svolta avviene nel gennaio del 1949, quando viene ritrovata alla stazione di Adelaide una valigia marrone senza etichetta, di evidente fabbricazione statunitense; dentro ci sono alcuni vestiti, incluso un paio di pantaloni con della sabbia nei risvolti, tutti con le etichette asportate tranne tre. Su queste appare la scritta ‘T. Keane’, e in una ‘Kean’.
Non cambia nulla, perché nessun Keane o Kean è scomparso da nessun paese anglosassone di recente.

Nella valigia ci sono però altri oggetti, per esempio un rocchetto di filo cerato di marca Barbour, non in commercio in Australia, esattamente identico a quello usato per riparare la fodera di una tasca dei pantaloni indossati dall’uomo sconosciuto.

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Un nuovo colpo di scena arriva quando, cucito in un taschino dei pantaloni, viene trovato l’indizio più appassionante di tutti: un foglietto di carta arrotolato, con la scritta Tamàm Shud.

Vengono convocati i dipendenti della biblioteca pubblica per decifrare la scritta, e salta fuori che si tratta delle parole conclusive del Rub’ayyat, opera del poeta persiano Umar Khayyam (1048-1131), che significano ‘finito‘, ‘concluso‘.
Viene cercata per tutta l’Australia una copia del Rub’ayyat compatibile con il pezzetto di carta, finché non si fa avanti un tizio, che dice di aver trovato proprio quel libro sul sedile posteriore della sua macchina, lasciata aperta in un parcheggio poco distante dalla spiaggia, in Moseley Street, qualche giorno prima del ritrovamento del corpo.
‘Quel libro’, peraltro, si rivela non essere un libro come tanti, ma bensì una rarissima edizione neozelandese del 1859; il pezzetto di carta viene proprio da lì, e inoltre sul retro si trovano alcune note scritte a matita.

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Cosa significano queste scritte? Il dipartimento di Difesa australiano non riesce a ricavare un codice coerente.
Ma c’è di più: sul retro del libro è scritto un numero di telefono che porta a un’infermiera di ventisette anni, Jessica ‘Jestyn’ Thomson, che abita a 400 metri dal luogo del ritrovamento, in Moseley Street.
Interrogata, la donna sostiene di aver posseduto una copia del Rub’ayyat e di averla regalata nel 1945, in piena guerra, a un luogotenente dell’esercito australiano, tale Alfred Boxall. L’uomo le avrebbe poi scritto, tempo dopo, ma lei gli avrebbe risposto di essersi sposata e di avere un figlio.

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La polizia le mostra il busto dell’uomo sconosciuto e la Thomson ha un mancamento, ma dichiara di non averlo mai visto prima; chiede poi agli inquirenti di rimanere anonima per non avere problemi in famiglia.
Ricercato, Alfred Boxall salterà fuori vivo e vegeto, con il suo libro integro e di un’altra edizione.

Ora, se questo caso fosse stato affidato a Poirot, è certo che tra i molti dettagli ci sarebbe stato quello che gli avrebbe fatto capire la verità. E invece niente, invece la realtà resta opaca e indecifrabile, e soltanto alcune ipotesi possono essere fatte.
L’uomo di Somerton si è suicidato, magari per amore? Ma allora quel pezzetto di carta può essere soltanto una coincidenza? E quelle lettere, possibile che non fossero un codice? E anche, chi era l’uomo che ha trovato nella sua macchina la copia del Rub’ayyat, e perché nessuno ne ha più parlato?

Negli anni successivi il caso è stato più volte riaperto, aggiungendo particolari e ipotesi. Nel 2004, per esempio, un investigatore in pensione ipotizzò che l’ultima riga del codice, ITTMTSAMSTGAB, fosse la sigla di “It’s Time To Move To South Australia Moseley Street…” (è tempo di andare a Moseley Street, in Australia Meridionale). Moseley Street, in effetti, era sia la via dove abitava la Thomson sia il posto dove fu trovata la macchina con il libro. Ma il resto cosa significava?
Le voci più accreditate ipotizzano la pista spionistica. Siamo nel pieno della guerra fredda, tra sospetti, doppiogiochismi e traffici di informazioni riservate tra i due blocchi. Alfred Boxall avrebbe svolto attività di intelligence, e l’uomo di Somerton sarebbe stato una spia russa, uccisa magari con una sigaretta avvelenata. L’ipotesi sarebbe accreditata da due morti apparentemente collegate: la prima, avvenuta tre mesi prima, di Harry Dexter White, membro statunitense del Dipartimento del Tesoro e sospettato di essere una spia sovietica, avvelenato con la digitale (la stessa sostanza sospettata nel caso di Somerton). La seconda, più intrigante ma meno probabile, avvenuta tre anni prima, di tale Joseph Marshall, fratello del Primo Ministro di Singapore, trovato morto in un parco di Sidney con una copia del Rub’ayyat aperta sul petto. Avvelenato anche lui.
A tutto questo vanno aggiunte le dichiarazioni rilasciate nel 2013 da Kate, una figlia della Thomson, secondo la quale la madre parlava russo ed era comunista, e conosceva bene l’uomo di Somerton, il quale sarebbe stato il vero padre del primo figlio. Sempre secondo Kate Thomson, quest’uomo sarebbe stato ben noto anche a un “livello superiore” di quello della polizia, ma non ci sono ovviamente prove concrete.

Una storia che sembra nata dalla penna di Agatha Christie, si diceva. E invece è stato Stephen King a subirne il fascino misterioso, e a usarla come ispirazione per il suo Colorado Kid.
Perché non c’è niente da fare, agli scrittori piacciono le storie sghembe, quelle che non stanno in piedi. Quelle che liberano i pensieri e vanno ovunque, tranne che verso una risoluzione lineare e definita.

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