di Paola Ronco
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Il giovane uomo che vedete in piedi nella foto è mio nonno, classe 1913, di famiglia povera, con la terza elementare, arruolato a forza nella guerra fascista e spedito in Eritrea.
Mio nonno, che non aveva alcuna opinione politica ed era molto cattolico, più di ogni altra cosa non voleva uccidere o fare del male. Per questo, alla partenza, quando gli fecero delle domande per capire dove piazzarlo, lui si inventò la balla di essere un barbiere, e trascorse tutta la guerra così, a radere i commilitoni, senza mai sparare un colpo e senza andare a stuprare bambine.
No, non desidero paragonare mio nonno al suo quasi coetaneo Montanelli, partito come volontario, per sottolineare quanto uno dei due fosse buono, e quanto l’altro fosse un infame stupratore pedofilo.
Desidero fare presente, questo sì, come non fossero ‘tutti uguali’ gli uomini che si ritrovarono a fare gli occupanti in un paese straniero.
Più che altro, però, vorrei provare a spiegare che cosa rappresenta la scelta di dedicare – e difendere a spada tratta – una statua a Montanelli per una persona cresciuta secondo determinati valori.
Perché non c’è altro modo di dirlo, quella statua è il simbolo perfetto di tutta una serie di aspetti deteriori e dolorosi, di cui la nostra storia è completamente imbevuta.
Io non ce l’ho tanto con il personaggio Montanelli in sé, anche se non ho mai provato alcuna stima per lui. Io ce l’ho con quelle voci incredibilmente stridenti e fuori tempo, tra i suoi colleghi, che si sono levate per difenderlo.
Abbiamo dovuto leggere tutta una serie di minimizzazioni criminali, da ‘aveva accettato di prendere in sposa Destà’ a ‘tutti fanno degli errori’, fino a ‘in certi paesi purtroppo si usa così’.
In queste spericolate arrampicate sui vetri c’è tutto il provincialismo cafone e insieme classista che rende soffocante ogni dibattito, e che ha degli effetti reali, drammatici, sulla realtà:
– il razzismo sistemico, travestito da tolleranza culturale che vale solo per noi quando andiamo a stuprare le bambine in Africa, mai quando si parla, per dirne una, di concedere luoghi di culto alle altre religioni presenti – e infatti i maschi italiani sono al primo posto tra i fruitori del turismo sessuale, ma di questo è comodo parlare solo quando c’è da accusare qualcuno di prendersela troppo ‘per una semplice statua’, con un ribaltamento retorico di cause ed effetti assolutamente incredibile;
– un evidente problema irrisolto che nasce da una totale mancanza di adeguata educazione sessuale e sentimentale, evidenziato dal machismo esasperato dell’uomo cacciatore per natura – con il corollario di violenze sessuali, colpevolizzazione perenne delle vittime, ignoranza di qualsiasi questione di genere, omotransfobia oltre i livelli di guardia;
– il paternalismo maschilista di chi spiega alle femmine isteriche che un dettaglio, come lo stupro di una bambina, non dovrebbe togliere nulla alla deferenza dovuta a un uomo considerato un maestro, anche quando le sue menzogne sono state ripetutamente smascherate – per esempio tutte le volte che ha negato l’utilizzo dei gas nella guerra in Etiopia;
– il disprezzo non solo per le donne in generale, ma anche per l’infanzia, vista oggi quasi solo come una seccatura particolarmente sentita nei ristoranti o un esclusivo problema a carico dei genitori – e infatti che cosa è ripreso prima, il campionato di calcio o la scuola?
– il colonialismo nell’anima, quell’atteggiamento per cui ‘gli stranieri’ non è che sono visti come inferiori, è che non vengono proprio visti, se non come forza lavoro sottopagata e clandestina o come argomento di propaganda elettorale – e infatti siamo qui, con la peggior legge sull’immigrazione mai promulgata, a parlarne senza che nemmeno un grande quotidiano abbia pensato di dare la parola a qualche studiosa afrodiscendente, sia mai che gli italiani cominciassero a pensare che quelle sono nostre connazionali, con buona pace di chi non ha introdotto lo ius soli per vigliaccheria indegna.
Perché stiamo parlando tanto di una statua? Sicuramente perché vari media mainstream hanno pensato bene di puntare i riflettori sulla faccenda in sé, anche perché questo permette ai vari polemisti da due soldi, funzionali al sistema di fare ammuina per non cambiare nulla, di scrivere le loro battute sugli eccessi del politically correct, seppellendo tutto sotto una coltre di sarcasmo e benaltrismo.
Ne stiamo parlando tanto, però, anche perché il presente è molto diverso da quello che viene raccontato in certi editoriali supponenti. Il presente è composto da tante persone inascoltate, invisibili, sfruttate, che ci sono sempre state e hanno sempre combattuto, cercando di ottenere la parola anche quando non se ne accorgeva nessuno. Anche quando non era un trend topic.
Come ha fatto mio nonno, che pur stritolato da un sistema che l’ha mandato in una guerra inutile ha trovato il suo modo per non obbedire, e che oggi tirerebbe un sacco di ceffoni a tutti i simpaticoni del ‘è sempre stato così e non ci puoi fare niente’.
Se non facciamo parte dei difensori corporativisti del giornalismo italico, se non siamo sollevatori di polveroni per mestiere, se non siamo commentatori compulsivi del tema del giorno, noi oggi non parliamo della statua perché ci interessa l’oggetto in sé.
Ne parliamo perché quella statua sta svelando dei meccanismi antichi, che vanno cambiati. Ne parliamo per mostrare i nostri nervi scoperti.
Ne parliamo, anche, perché la storia non è fatta di date sul sussidiario e non è scolpita nelle pietre; la storia è materia viva e pulsante, è un’indagine continua su quello che siamo stati, che si serve del presente, e che soprattutto serve al nostro futuro.