di Antonio Paolacci
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Su Montanelli circola da sempre l’idea – ormai diventata un luogo comune – che sia stato «uno dei migliori» giornalisti italiani, se non addirittura «il migliore».
L’alta considerazione che questo Paese sembra averne era palpabile già quando era vivo. Da ragazzino, io stesso ero in qualche modo convinto che si trattasse di un grandissimo giornalista. Non ne conoscevo le ragioni, ma mi pareva che su questo fossero tutti d’accordo e mi adeguavo.
Da ragazzino non sapevo che, invece, il suo nome è uno tra i più discussi e divisivi nella storia del giornalismo italiano.
Tra i motivi, spicca senz’altro il suo passato da fascista, durante il regime, in particolare in veste di colonialista schiavista e maschilista pedofilo, disprezzato cioè per aver avuto «una relazione» (come ignobilmente la definisce pure Wikipedia) con una bambina eritrea (12enne).
Ma, certo, la storia di Montanelli non può essere liquidata tanto in fretta. È complessa e articolata.
Per esempio: pur con un passato da fascista razzista, durante la guerra fu arrestato per aver scritto degli articoli considerati diffamatori del regime; nel 1977 fu vittima di un attentato delle Brigate Rosse; poco dopo accettò di lavorare finanziato da Berlusconi, con il quale poi sarebbe arrivato allo scontro; uscì da diverse redazioni, quasi sempre in modo polemico ed eclatante; rifiutò l’offerta di nomina a senatore a vita da Cossiga; eccetera.
Ma perché viene considerato uno dei migliori giornalisti italiani?
Se si esclude il clamore che spesso accompagnava le sue vicende, in verità di Montanelli non si ricorda alcuna inchiesta eclatante, nessuno smascheramento, nessun reportage di importanza storica, a parte due o tre interviste a personalità come Churchill, il Papa e Charles de Gaulle, cosa che comunque lo accomuna a svariati suoi colleghi.
Piuttosto, lo si ricorda per «la concisione e limpidezza della scrittura» e per «la sua lucidità di analisi», per i suoi editoriali «graffianti», per le sue opinioni «fuori dal coro».
In buona sostanza, Indro Montanelli viene ricordato per essere stato «una buona penna» e un brillante «opinionista».
E indubbiamente aveva un’indole indocile. Ma non credo che questo basti a renderlo il miglior giornalista italiano. In realtà, né l’intelligenza, né la capacità di scrittura, né tantomeno il fatto di non essere il portavoce di un padrone sarebbero dei grossi meriti, per un giornalista. Semmai, dovrebbero essere le caratteristiche alla base del mestiere.
Il quale mestiere non dovrebbe però essere affatto (se non secondariamente) quello di fornire opinioni, ma piuttosto quello di informare.
E, in qualche modo, credo che qui si nasconda una fenomenologia.
Il fatto cioè che questo Paese consideri un opinionista il suo «miglior giornalista» nasconde uno dei nodi critici della cultura italiana: l’idea che il giornalismo non debba tanto informare, quanto formare.
Eppure in Italia di giornalisti davvero importanti, e più o meno dimenticati, ce ne sono stati molti. Tanti sono stati addirittura uccisi per aver fatto il loro vero e più utile mestiere: portare a galla i fatti.
Nove sono stati ammazzati direttamente dalla criminalità organizzata.
Nove.
Ma riuscireste a ricordare i loro nomi come ricordate quello di Montanelli?
Non è un caso che il Premio giornalistico più ambito al mondo – e cioè il Pulitzer – venga assegnato alla singola inchiesta o al singolo lavoro, e non alla «bravura» dell’autore.
Joseph Pulitzer, che creò quel Premio, sapeva che la qualità di un giornalista è sempre discutibile, e che il suo merito si determina semmai da ciò che riesce a scoprire e raccontare, non dalla sua personalità, dall’abilità linguistica o dal carattere.
Pulitzer diceva: «Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli… La sola divulgazione di per sé non è forse sufficiente, ma è l’unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri.»
In Italia, i nomi dei giornalisti che hanno divulgato i fatti e smascherato segreti restano quasi tutti avvolti in un alone di oscurità, anche ad anni di distanza, sporcati da mezze verità, documenti scomparsi, depistaggi e, soprattutto, ricoperti da quelle stesse «badilate di fango» che erano servite, alla loro morte, per annientarne non solo il ricordo ma anche il lavoro.
In Italia, i giornalisti che hanno colmato degli enormi vuoti investigativi lasciati da magistratura e forze dell’ordine sono stati fatti fuori, e i loro nomi non si ricordano con una venerazione nemmeno paragonabile a quella che accompagna il nome di Indro Montanelli.
In Italia la loro memoria può essere sporcata più o meno impunemente anche decenni dopo i loro omicidi, mentre invece il Paese è sempre pronto a correre in difesa della memoria di Montanelli, ogni volta che qualcuno si permette soltanto di ricordare che «il più grande giornalista italiano» non chiese mai scusa, né mai si pentì di essere stato un razzista pedofilo.