Il mese è aprile, l’anno è il 1961, e questa storia comincia con un uomo che si sente male.
Sì, avete letto bene; siamo nel 1961, in aprile, e tutto quello di cui si parlerà qui è un uomo che si sente male. Niente Jurij Gagarin, anche se poi si scoprirà che in qualche modo alla fine c’entrava, niente baia dei Porci, niente guerra nucleare scampata per un soffio. Niente di tutto questo.
Il motivo è semplice, ed è che l’aprile del 1961, per il protagonista della nostra storia, significa soltanto neve, gelo, buio pesto anche di giorno; oltre a quell’inquietante senso di malessere che si rafforza ogni giorno di più.
Leonid Rogozov ha 27 anni, è un medico e partecipa alla sesta spedizione antartica sovietica; nelle immagini dell’epoca lo vediamo come un bel giovane uomo, che sorride sicuro all’obiettivo.
Sette mesi prima si è imbarcato sulla nave Ob, e dopo trentasei giorni in mare è arrivato sulla costa Princess Astrid. È qui, ai confini del mondo, che lui e i dodici compagni dell’equipaggio costruiscono una nuova base polare, dove dovranno passare un anno circa, in attesa che i ghiacci si sciolgano e permettano alla nave di tornare a prenderli.
I sintomi, per Leonid Rogozov, diventano sempre più chiari: un po’ di febbre, nausea, debolezza. Quando il dolore arriva all’addome, sul lato destro, non è più possibile fare finta di nulla; “Sembra che io abbia l’appendicite”, scrive nel suo diario. “Continuo a mostrarmi tranquillo, perfino a sorridere. Perché spaventare i miei amici? Chi potrebbe essermi di aiuto?”
Sentirsi male in mezzo al nulla, senza la possibilità di un soccorso, senza un’apparente speranza. Leonid Rogozov sa, da medico, che un’appendicite non curata può perforarsi, e che questo significa morte; sa anche, per averlo fatto più volte, come si opera, ma nessuno dei suoi compagni potrebbe farlo per lui.
“Stanotte non ho chiuso occhio. Fa un male d’inferno! Una tempesta di neve mi frusta l’anima, che sta ululando come cento sciacalli”.
Le possibilità sono poche, e alla fine, quando non può più indugiare oltre, Rogozov capisce qual è l’unica cosa che gli resta da fare, per quanto spaventosa. “I ragazzi l’hanno scoperto. Continuano a venire per cercare di tranquillizzarmi. E sono arrabbiato con me stesso, ho rovinato le vacanze a tutti. Domani è il Primo Maggio. E ora sono tutti indaffarati a preparare l’autoclave. Dobbiamo sterilizzare la biancheria da letto, perché stiamo per operare”.
È la notte del 30 aprile, e alle due comincia uno degli interventi chirurgici più estremi della storia; Leonid Rogozov si mette in una posizione semiseduta, pronto all’anestesia locale. Con lui ci sono il meteorologo, che ha ricevuto l’incarico di passargli i ferri, e un meccanico, che dovrà orientare la lampada e lo specchio, in modo da permettergli di vedere bene cosa sta per fare. È presente anche il direttore della stazione, pronto a intervenire se uno dei due compagni dovesse sentirsi male.
“I miei poveri assistenti!”, scriverà poi Rogozov. “All’ultimo minuto li ho guardati. Stavano lì, più pallidi dei loro grembiuli. Anch’io ero spaventato. Ma quando ho preso la siringa piena di novocaina e mi sono praticato la prima iniezione, in qualche modo sono entrato in modalità operatoria, e da allora non ho più notato nient’altro”.
Leonid Rogozov incide il proprio addome, e capisce subito che lo specchio non gli sarà molto utile, e che gli converrà usare soprattutto il tatto per orientarsi in profondità; opera a mani nude, senza guanti, proprio per sentire meglio. Dopo una mezz’ora comincia a sentire una vertigine crescente, anche a causa dell’abbondante perdita di sangue. Commette poi un errore, rendendosi conto appena in tempo di aver inciso l’intestino cieco; è sempre più stanco e suda in maniera incontrollata, ma in qualche modo arriva alla fine.
“Sono sempre più debole, la mia testa comincia a girare. Ogni quattro o cinque minuti devo fermarmi per 20-25 secondi. Alla fine eccola, la maledetta appendice! Noto con orrore la macchia scura alla base. Significa che entro un giorno sarebbe scoppiata…”
L’operazione termina dopo un paio d’ore. Il giorno dopo, Leonid Rogozov ha la febbre ma è vivo; due settimane dopo riprenderà a lavorare alla base.
Il suo ritorno in Unione Sovetica, nel maggio del 1962, sarà trionfale: coetaneo di Gagarin, come lui proveniente dalla classe operaia, sarà acclamato alla stessa maniera come eroe nazionale. Leonid Rogozov, comunque, manterrà sempre un profilo basso, e si dedicherà al suo lavoro di medico per il resto della vita.
“Un lavoro come un altro, una vita come un’altra”, ripeterà spesso, a quanti gli chiederanno della sua impresa.
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