È il 5 aprile 2016. A New York sono circa le 19.00. Ci troviamo nell’Upper West Side di Manhattan, sulla Central Park West, fra la 79a Strada e il Central Park, precisamente in uno dei maggiori musei di New York: l’American Museum of Natural History.
Nella sala conferenze c’è un palco allestito con sedie e microfoni. A introdurre il dibattito è un uomo di 58 anni, afroamericano, in leggero sovrappeso, capelli appena un po’ ingrigiti, baffetti, in completo scuro e cravatta.
Si chiama Neil deGrasse Tyson ed è un astrofisico, molto noto al pubblico americano soprattutto in qualità di divulgatore scientifico. È il direttore dell’Hayden Planetarium del Rose Center for Earth and Space di New York. È stato ricercatore a Princeton, ha scritto moltissimi libri, ha condotto programmi televisivi di divulgazione e nel 2015 la National Academy gli ha conferito la Public Welfare Medal per il suo «ruolo straordinario nell’emozionare il pubblico riguardo alle meraviglie della scienza».
Sul palco, con aria elegante e voce calda, Neil deGrasse Tyson introduce il tema della serata: “La domanda che ci facciamo oggi”, dice, “è se l’universo sia la simulazione di un computer”.

Il pubblico in sala rumoreggia. Tyson soffia nel microfono un autoironico “Yeah”, poi gli scappa proprio da ridere. Dalla platea arrivano altre risate.
Tyson inspira una lunga boccata tra i denti, scuote la testa, scoppia letteralmente a ridere e cerca di fare una battuta, ma non gli riesce.
La domanda a quanto pare è seria. Sul palco, insieme a lui che farà da moderatore, a dibattere sul tema ci sono scienziati e filosofi veri.
Sì, è così: un gruppo di fisici e filosofi di alto profilo si sono riuniti lo scorso 5 aprile a New York per discutere, seriamente e davanti a un pubblico, della possibilità che il nostro universo sia una simulazione di computer, un mondo artificiale illusorio, proprio come nel film Matrix, quello con Keanu Reeves.
È successo durante l’annuale Isaac Asimov Memorial Debate. I relatori erano:
David Chalmers – Docente di filosofia alla New York University;
Zohreh Davoudi – Fisico teorico del Massachusetts Institute of Technology;
James Gates – Fisico teorico dell’Università del Maryland;
Lisa Randall – Fisico teorico di Harvard;
Max Tegmark – Cosmologo del Massachusetts Institute of Technology.
L’universo, hanno spiegato i relatori al pubblico, sembra essere basato su leggi matematiche, schemi di calcolo che si ripetono in modo apparentemente casuale, proprio come sarebbero gli algoritmi di un programma osservati dall’interno del programma stesso.
“Se fossi un personaggio di un gioco per computer”, ha detto per esempio il cosmologo Max Tegmark, “alla fine mi accorgerei di quanto le regole appaiano troppo rigide e matematiche, come se tutto fosse semplicemente frutto del codice con cui è stato scritto il gioco”.
Affermazione che richiama per istinto alla memoria una serie di pensieri, tipici soprattutto dell’adolescenza, quando ci dicevamo che qualcosa non quadrava, nella vita, che la realtà non era proprio convincente. Un po’ come dice Morpheus nel film: c’è qualcosa di strano, qualcosa che manca, e lo sappiamo da sempre.
Il dibattito prosegue. Si parla delle teorie della fisica, delle scoperte del secolo scorso, delle ipotesi nuove e vecchie sulla realtà che ci circonda. Ma in più di un momento, il grande scoglio del ragionamento sembra essere principalmente uno, che potremmo sintetizzare così:
Se anche fosse vero che siamo all’interno di una realtà virtuale, creata e forse gestita da un’intelligenza superiore alle nostre, non potremmo mai verificarlo scientificamente, da un lato perché non ci è possibile comprendere quanto può comprendere un’intelligenza superiore alla nostra (per definizione), dall’altro perché ogni prova scientifica possibile andrebbe fatta all’interno della simulazione stessa e dunque sarebbe essa stessa parte della simulazione.
La trama del film Matrix si reggeva in effetti su un unico presupposto inverosimile: la nascita ipotetica (e per logica impossibile) di una persona straordinaria (un’anomalia del sistema) che sia non solo in grado di percepire l’irrealtà in cui vive ma soprattutto di uscirne, ovvero un uomo che, all’interno della simulazione, sia in sostanza capace di modificare la simulazione stessa a mezzo di superpoteri analoghi a quelli di un supereroe da fumetto.
Certo, il film non è un’opera di divulgazione scientifica, per cui ha tutto il diritto di essere inverosimile.
Ne ha anzi quasi il dovere. Dal punto di vista narrativo, il tema alla base di Matrix è impeccabile proprio per questo: narratologicamente parlando, la sua trama non fa che riprendere una delle strutture più classiche della fiaba.
Al pari di Matrix, ci sono moltissimi altri film che trattano in vario modo il grande tema della impossibilità di distinguere fra reale e irreale. Truman Show, per esempio, ribalta il punto di osservazione su un piano apparentemente opposto, ma è chiaro che il tema è analogo. E lo stesso tema possiamo vederlo in film come Il sesto senso e The Others, o nella serie tv Westworld attualmente in corso, giusto per citare un paio di casi.
Le storie sono moltissime e tutte sembrano originali. Ma all’origine di tutte queste trame c’è ovviamente una sola matrice: il mito della caverna, esposto da Platone nel libro settimo de La Repubblica.
L’argomento filosofico è quindi (per così dire) un “classico”, ed è enorme, per certi aspetti originario: riguarda in modo diretto la natura del mondo reale e, di conseguenza, l’ipotesi che noi tutti si possa percepire una realtà ridotta o addirittura completamente falsa.
Parliamo insomma del dubbio mistico che muove tutte le religioni, ma anche di una semplice metafora o allegoria del nostro vissuto quotidiano. Parliamo di un tema che hanno dibattuto i saggi di tutte le epoche.
In passato usavano linguaggi diversi e un immaginario che aveva a che fare con divinità e mondi ultraterreni. Oggi usiamo linguaggi più adatti alle nostre attuali conoscenze, sia tecnologiche (la realtà virtuale), che teoriche (le ipotesi della fisica contemporanea), che narrative (i film e la letteratura di genere, che hanno in qualche modo preso il posto del mito).
Ma, in realtà, quasi tutte le storie inventate, come il mito della caverna di Platone, ci parlano in definitiva dell’ignoranza in cui viviamo. Il mito della caverna ci parla poi, e forse soprattutto, della nostra incredibile volontà di restare ignoranti.
Parla cioè non soltanto della possibilità che varie forme di potere (come in Matrix, Truman Show, ecc.) o di governo (come in 1984, Fahrenheit 451, ecc.) possano deviare la nostra vista su delle ombre e tenerci in catene, modificando la nostra percezione del reale: ci parla soprattutto del fatto che a uscire da questa caverna non ci pensa proprio nessuno (se non un inverosimile “Eletto”, eroe mitologico destinato alla solitudine e alla disperazione), perché a vincere è soprattutto la nostra pigrizia mentale, mista alla paura di andare incontro a ciò che non conosciamo.
All’interno della caverna, l’uomo è prigioniero anzitutto di se stesso, perché è l’uomo stesso a immobilizzare se stesso con le catene di un’opinione alla quale crede passivamente.
Il che, in qualche modo, è l’effettiva realtà quotidiana di tutti.
Alla fine, la sera del 5 aprile a New York, Neil deGrasse Tyson (scienziato e conduttore televisivo) si è visto quindi costretto a concludere esattamente come aveva cominciato: ridacchiando e dicendo che il fatto di vivere all’interno di una simulazione andrebbe in definitiva considerato possibile al 50%.
La ricerca del senso della realtà non poteva del resto portare a nessun’altra conclusione: il 5 aprile, su quel palco di New York, più che un dibattito che cercava la verità sulla nostra esistenza, è andata in scena la narrazione della ricerca stessa, adattata alla nostra epoca.
Uno spettacolo, giustamente: né più né meno che uno show.
Welcome to the real world.