Le verità della televisione

di Antonio Paolacci

Serve tempo, per capire il nostro tempo. Per capire cosa sia successo alla nostra generazione, alla nostra cultura. Serviva tempo per riuscire a capire cosa fosse successo il 20 luglio del 2001, il giorno che ha cambiato tutto.
Ma col tempo, adesso, forse possiamo dire che la morte di Carlo Giuliani rappresenta molte cose. Quel fatto che ha segnato la nostra generazione è anche ormai un esempio di come funzionino la comunicazione e la conoscenza oggi.

Il tempo lo ha dimostrato. Oggi quel sistema informativo è al tripudio, ha raggiunto l’apoteosi, e viene metodicamente applicato di continuo.
La colpevolizzazione delle vittime è un meccanismo che oggi è talmente trionfante da aver ribaltato la realtà, al punto che tutto il discorso pubblico è ormai al caos, dissociato dai fatti e proiettato interamente su un piano dove ogni cosa, dallo stupro di una minorenne alla condanna per mafia di un politico, diventa terreno di scontro per opinioni contrapposte, tutte ufficialmente legittime.

C’è una distorsione incredibile del senso della realtà, al punto che il valore dato alla vita stessa può esserne compromesso.
E non accade solo in Italia. Anzi, facciamo proprio un esempio lontano geograficamente, perché la distanza aiuta a osservare le cose in prospettiva.

Ci sono milioni di americani che sfidano la pandemia, in questi giorni. Proviamo a pensarci. Persone che muoiono o si ammalano gravemente, perché alcuni politici li hanno convinti che non c’è nessun virus.
È un fatto. Per quanto incredibile. Voglio dire: è stato dichiarato uno stato di pandemia, tutti i mezzi di informazione, la comunità scientifica, le testimonianze dirette, tutto ci urla che esiste un virus pericoloso. Ora, mi chiedo: in questo contesto, come si fa a convincersi che invece il virus non esiste?
Intendiamoci: capisco che si possa dubitare della pericolosità e perfino dell’esistenza di questo virus. Ma un conto è dubitarne, altra cosa è essere talmente convinti di qualcosa di cui non si sa nulla, al punto da scommetterci la vita.

In che modo, questa gente, prende le informazioni che possono condizionare la loro salute, il loro futuro, e soprattutto come possono fidarsi della cosiddetta “opinione” di qualcuno che – semplicemente – sembra loro convincente, ma senza avere gli strumenti per verificarla, questa opinione di uno sconosciuto convincente?
Fino a dove può arrivare la fede in un tizio che parla in tivù?

In Italia non è diverso. Anche qui c’è una zombizzazione delle masse che spinge moltissimi a sacrificare la vita in nome del profitto delle aziende, per esempio. E se non la vita, la salute, e se non la salute i diritti, gli affetti, il piacere, le idee, il tempo.
La distorsione del senso spinge una percentuale incredibile di persone povere a credere in una realtà immaginaria, dove tutti possono farcela, se lo meritano, perché chi ha di più lo ha meritato, dicono, e chi ha di meno non ha “voglia di lavorare”.
Dietro questa disponibilità a immolarsi per salvare i privilegi altrui, non c’è una logica, c’è solo una comunicazione che a molti appare convincente.
In effetti, l’idea che un ricco non debba perdere il suo enorme patrimonio, se si guarda la tivù, può apparire perfino più sensata dell’idea che un bambino nato dall’altra parte del mare non debba perdere la vita.
Il sistema informativo e culturale ha talmente farcito i cervelli di queste “certezze” da farle ritenere fondamenti granitici della società.

È per questo meccanismo stesso che, a 19 anni dai fatti di Genova, c’è ancora chi viene a spiegarci che Carlo Giuliani se l’è cercata. Per questo la narrazione della sua morte può diventare un esempio del problema.
Il sistema informativo ha trasformato in certezze dei punti di vista ampiamente smentiti dalla logica e dalle prove. Non importa che non ci sia nessuna relazione di causa-effetto – per esempio – tra le suore manganellate in piazza Manin e le vetrine spaccate da tutt’altra parte della città. Non importa: il meccanismo comunicativo non si appoggia alla logica, né alla conoscenza dei fatti. Esso suggerisce che le torture alla Diaz sono state una conseguenza degli atti vandalici, e tanto basta.
Non c’è rapporto di causa-effetto tra l’estintore tra le mani di Carlo Giuliani e tutto quanto successo a Genova in quei giorni, proprio come non c’è relazione tra, che so, il movimento Black Lives Matter e l’omicidio di Pamela Mastropietro; proprio come non c’è relazione tra una minigonna e uno stupro; tra l’omosessualità e la pedofilia; eccetera, eccetera, eccetera.
Eppure, se parlate con molta gente, vi ritrovate a discutere di fantascientifiche relazioni di causa-effetto tra queste cose.
Come fa una società a impazzire così?

Oggi è il 20 luglio 2020 e, come ogni anno, anche oggi siamo assediati da tizi che si sentono in dovere di spiegarci che no, che non sono del tutto d’accordo con noi, che Carlo Giuliani se l’è cercata, che l’estintore e che la città devastata e tutto il resto della narrazione da dibattito tivù, come se noi non la conoscessimo, la loro versione falsificata. Come se noi non avessimo studiato – per 19 anni – libri, inchieste, testimonianze.

Ci stupisce sempre che questi saccenti da divano in 19 anni non si siano presi il disturbo di leggere e studiare i fatti e che, dall’alto di poche orette di dibattito tra uno Sgarbi e un Giovanardi, tra un presentatore di quiz e una soubrette interpellati in merito, si siano convinti di poter spiegare – loro a noi – come stanno le cose.

Qualcuno dovrebbe spiegare piuttosto a questi telespettatori che la verità non è un’opinione.
Noi nel 2001 eravamo ragazzi a Genova, o amici o parenti di chi era a Genova, ma oggi siamo scrittori, editori, avvocati, magistrati, giornalisti. Abbiamo una voce, spesso una competenza, e sicuramente una verità da raccontare. Ce l’abbiamo da 19 anni. E l’abbiamo raccontata fino allo sfinimento per 19 anni, ma lo faremo ancora e ancora, non possiamo farne a meno.
La racconteremo sempre tutta, la verità, fino a che resterà solo la verità.
Se ne facciano una ragione.

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