di Paola Ronco
—
C’è Karim, che è morto a dieci anni, da solo, schiacciato nell’ingranaggio di chiusura di un cassonetto per la raccolta di vestiti usati.
C’è Carla, che è infermiera in una Rsa decimata dai contagi e che ha preso a sua volta il virus, e che in quarantena a casa, messa di fronte a fantasmi che nessuno può immaginare, ha cercato di uccidersi.
C’è Giulio, che ha sedici anni e l’altro giorno si è buttato dal balcone; è il terzo minore che si suicida in un mese, soltanto nella sua città.
C’è Valerio, che di anni ne ha cinquanta, ha tre figli e anche lui si è buttato da una finestra. Prima di uccidersi ha lasciato una lettera, dicendo che senza lavoro e senza soldi non sa vedere una via d’uscita.
C’è Aboubakar, che domani insieme ai suoi compagni braccianti non raccoglierà nemmeno un asparago e farà sciopero, perché non è possibile essere pagati tre euro all’ora e diventare un argomento politico soltanto quando c’è da preoccuparsi per la frutta che marcisce.
C’è Beppe, che ha perso il lavoro e la casa e che ora vive per strada.
C’è Luisa, che dovrebbe tornare a lavorare in ufficio ma non sa come fare con sua figlia piccola. Luisa ama il suo lavoro ma guadagna meno di suo marito, che già guadagna poco, per cui sta scrivendo la lettera di dimissioni.
C’è Mara, che fa la cassiera in un supermercato e ha lavorato per tutto il tempo, rischiando la salute, con il pensiero dei figli adolescenti a casa. Il posto dove lavora ha registrato un incremento nelle vendite del 300% circa, ma tuttavia ha messo Mara e i suoi colleghi in cassa integrazione, perché i profitti si tengono, per carità, ma quando arrivano le spese tutti i padroncini liberali diventano tifosi dello stato sociale.
C’è Ishan, che fa il bracciante e preferirebbe non ammalarsi, per cui chiede una mascherina come sarebbe suo diritto elementare. Il caporale che sfrutta il suo lavoro lo licenzia, lo gonfia di botte e lo lascia in un canale di scolo.
C’è Vincenzo, che ha cinquantacinque anni e un figlio, che una mattina va a lavorare in fabbrica e non torna più a casa, perché la fabbrica gli scoppia addosso, sollevando una nube nera che si vede a chilometri di distanza.
Alcune di queste persone hanno un nome immaginario, tutte loro esistono.
Tutte loro sono mie compagne. Di lotta, di dolore, di rabbia.
Tutte loro sono sole, isolate in un campo di battaglia in cui il nemico fa di tutto per dividerle l’una dall’altra, in modo che ciascuno pensi di dover lottare nel fango con altri poveracci. In modo che pensi di non contare nulla.
Fa paura, ma è davvero arrivato il tempo di rendersi conto che ognuna delle nostre vite, ognuna delle nostre battaglie quotidiane è importante e degna di esistere. Il tempo di rendersi conto che quello che vogliamo è il minimo indispensabile, e che è ora di finirla con le briciole che cadono dall’alto come fossero caviale.
Tornare a ricordarsi, ancora, che uniti siamo tutto.