Lo strano caso della febbre del ballo (senza sabato sera)

Questa storia comincia in un giorno di luglio, con una donna che esce di casa, si ferma in mezzo alla strada e comincia a ballare. Non è un giorno di festa, non c’è nessuna musica in giro, e questa donna non sembra affatto contenta di quello che sta facendo, eppure balla. Da sola, in maniera frenetica, con un’espressione di grande sofferenza in viso.

Se ci trovassimo ai giorni nostri, a questo punto i passanti forse proverebbero a intervenire, chiamerebbero un’ambulanza. Quasi sicuramente qualcuno farebbe un video da far girare sui social.

Pianta della città di Strasburgo nel Civitates Orbis Terrarum, 1572
Pianta della città di Strasburgo nel Civitates Orbis Terrarum, 1572

Ci troviamo però nel 1518, e molte delle persone che passano si fanno probabilmente il segno della croce. Ci troviamo nel 1518, a Strasburgo, e sono tempi parecchio cupi. Tempi di pestilenze, carestie, pochissime allegrie. Tempi in cui il demonio sembra sempre in agguato, pronto a irretire i buoni cristiani.

Questa storia comincia con una donna, si diceva. Il suo nome è Frau Troffea, e non smette di ballare.
Quando non si regge più in piedi si butta per terra, dorme qualche ora, poi si rialza di botto e riprende la sua folle danza, i piedi insanguinati, le lacrime agli occhi.
Sembra un affare da poco, qualcosa da liquidare con un segno di croce oppure una risata.

Solo che poi arriva un vicino di casa di Frau Troffea, le si affianca in silenzio e si mette a ballare anche lui. Da solo, per ore e ore, senza felicità.
Poi arriva qualcun altro.
Poi, nello sconcerto ormai generale, ne arrivano altri due. A Strasburgo comincia a girare la voce che qualcosa di terribilmente strano stia capitando.
Una settimana dopo, Frau Troffea sta ancora ballando. E con lei sono ormai in trentaquattro.
Alla fine di agosto, i ballerini disperati saranno in quattrocento.
Ogni tentativo di fermarli appare inutile, e alcuni cominciano a morire per attacchi di cuore e malori vari. Le fratture alle caviglie non si contano.

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Un caso bizzarro, si diceva. Ancora più strano è scoprire che questa non è la prima volta, ma almeno la decima. Nel 1374, per esempio, il morbo del ballo aveva invaso contemporaneamente molte città di Belgio, Lussemburgo e Francia. Impressionante anche il caso del 1237, quando un gruppo di bambini comincia a saltellare e ballare senza fermarsi, da Erfurt fino ad Arnstadt (vi ricorda qualcosa? Esatto, il pifferaio di Hamelin. Tenetelo a mente, perché non è l’unica fiaba che salterà fuori).

Sono tutti casi incredibili, ma quello di Strasburgo è stato il più studiato per un motivo molto semplice: è il più documentato. Editti, cronache locali, appunti di medici, sermoni, stanno tutti lì a raccontarci una vicenda tanto inconsueta quanto quasi comune per l’epoca.

Che cosa succede, dunque, quando i ballerini cominciano a morire? I medici, interpellati con urgenza dalle autorità cittadine, escludono cause soprannaturali o astrologiche, e propendono per una malattia dovuta al ‘sangue caldo’.

La cura proposta è ancora più stravagante del male: l’unico modo per arrestare la piaga, sostengono i medici, è farla sfogare. Viene così allestito un palco di legno, e alcuni musicisti sono ingaggiati per accompagnare le evoluzioni disperate degli ammalati, nella speranza che entro pochi giorni si torni alla normalità.

In un clima sempre più surreale, che fa pensare a un quadro di Bosch, i danzatori continuano a muoversi a un ritmo sconosciuto, e quando riescono a tirare il fiato supplicano gli astanti perché li aiutino a fermarsi.

Che cosa sta succedendo? Qualcuno pensa a un’ingestione di massa di segale cornuta. Colpevole sarebbe insomma un parassita delle graminacee, la claviceps purpurea, altrimenti detta ergot, molto tossico per via degli alcaloidi psicoattivi che contiene (stiamo parlando della stessa sostanza da cui partirà Albert Hoffman per sintetizzare l’LSD). Si tratta di un’evenienza piuttosto comune per l’epoca; l’intossicazione da ergot porta allucinazioni, spasmi convulsivi, addirittura cancrena, ed è allora nota sotto il nome di fuoco di Sant’Antonio.

L’ipotesi è suggestiva, ma poco probabile. In primo luogo sarebbe stata necessaria una quantità davvero enorme di segale cornuta per far ballare per oltre un mese quattrocento persone, e in epoca di carestia non pare una cosa possibile. C’è inoltre da notare che gli spasmi dati da questa intossicazione sono involontari e molto scoordinati, mentre le cronache dell’epoca parlano di danze piuttosto aggraziate, nonostante la disperazione.

La situazione a Strasburgo, intanto, peggiora, e le autorità non possono fare altro che affidarsi alle forze superiori. In mancanza di spiegazioni logiche, appare chiaro che qualcuno lassù è molto arrabbiato. Chi? Ma San Vito, ovviamente, il santo patrono dei danzatori e degli epilettici, un tipo che non conviene contrariare, perché in grado di togliere il senno per punizione.

San Vito nell'iconografia tradizionale
San Vito nell’iconografia tradizionale

Le autorità locali fanno erigere quindi una statua a San Vito e indicono un periodo di contrizione, in cui sono vietati il gioco d’azzardo e la prostituzione. Subito dopo caricano in tutta fretta i sopravvissuti su tre grandi carri, e li fanno portare al santuario più vicino del santo, presso Saverne.

Lì i preti dicono messa, poi consegnano a ogni ballerino una croce e, attenzione, un paio di scarpe rosse benedette con l’olio santo (avete riconosciuto anche l’assonanza di questa fiaba? Sì, si tratta proprio di Scarpette rosse, di Andersen). Ogni gruppo viene condotto davanti all’altare, dove un prete benedice le scarpe e spruzza acqua benedetta su tutti. Curiosamente, molti ballerini reagiscono con violenza al colore rosso, e altri sembrano trarre un grande piacere se percossi sui piedi.

Da lì in poi la piaga va scemando, e per settembre anche gli ultimi danzatori hanno smesso di agitarsi.

Ma cosa è davvero successo, in quel luglio del 1518 a Strasburgo?

Lo storico John Waller ha scritto un libro a riguardo: A time to dance, a time to die, in cui ripercorre tutte le ipotesi possibili, scartandole fino ad arrivare a quella meno improbabile. Waller è convinto che quello di Strasburgo sia stato un fenomeno di isteria collettiva, provocato dalla particolare concomitanza di condizioni economiche, sociali e religiose dell’epoca.

Sono tempi oscuri, abbiamo detto, tempi molto difficili di grandi carestie, e anche di malattie. Morbillo e lebbra falciano vittime ogni giorno, e la sifilide fa la sua prima atroce comparsa in Francia. In un contesto del genere è difficile immaginare che la divinità sia benigna e ben disposta; la paura e la disperazione spirituale, unite alla fame, sarebbero state una miscela letale, in grado di provocare uno stato di trance nelle persone più influenzabili.

Quello di Strasburgo fu l’ultimo caso di ‘piaga del ballo’ di massa; poco tempo dopo sarebbe arrivata la Riforma protestante, si sarebbero mutati di nuovo tutti gli equilibri.

Rimangono ancora, qua e là, piccoli episodi per nulla paragonabili, eppure curiosi. Come quella volta in Tanzania, nel 1961, quando una scolaresca di 95 ragazzini iniziò un’epidemia di risate che finì per coinvolgere quasi trecento persone, tutte giovanissime, per quasi un anno. Ma di questo, magari, parleremo un’altra volta.

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