L’epoca è quella del Grand Guignol, un teatro di Parigi specializzato in spettacoli violenti e macabri. Nasce nel 1897, in piena Belle Epoque, e ottiene subito un grande successo. Ogni sera i trecento posti sono occupati, ogni sera i parigini accorrono per assistere a opere in cui protagonista è la violenza delle immagini; torture, follia, omicidi, perversioni, niente viene risparmiato per creare uno shock nello spettatore.
Non che la cosa sorprenda, stiamo parlando della stessa razza umana che si affolla per assistere alle esecuzioni pubbliche e che, addirittura, frequenta la Morgue di Parigi come se si trattasse di un teatro. Leggiamo un po’ come Emile Zola racconta una di queste scene nel suo Thérèse Raquin:
“Era uno spettacolo che lo divertiva, soprattutto quando c’erano donne con il petto nudo bene in vista. Queste nudità brutalmente esposte, macchiate di sangue, qua e là sforacchiate, lo attiravano e lo trattenevano alla vetrata. Una volta vide una giovane donna di vent’anni, una ragazza del popolo, grossa e forte, che pareva dormisse sulla pietra; il suo corpo fresco e opulento biancheggiava con una soavità di tinte di una grande delicatezza; accennava un sorriso, la testa appena reclinata, e offriva il petto in un modo provocante; poteva sembrare una cortigiana in una posa di molle abbandono non fosse stato per una linea nera sul collo che le metteva come un vezzo d’ombra; era una ragazza che si era impiccata per una delusione d’amore. Laurent la osservò a lungo, come accarezzandola con lo sguardo, smarrito in una sorta di trepido desiderio.”
Gli spettacoli del Gran Guignol sono normalmente brevi, e vengono ripetuti più volte durante la serata. Le trame sono piuttosto semplici e prevedibili, ma qua e là è possibile intravedere qualche guizzo di genio.
In Au téléphone, per esempio, opera di André de Lorde del 1901, troviamo un’idea che poi verrà sviluppata ampiamente nel cinema: un solido, borghese, uomo d’affari parte per Parigi, lasciando la moglie con il figlio piccolo e una cameriera nella loro casa di campagna; il luogo è isolato e un tantino inquietante, ma nella casa è presente una delle meraviglie moderne più incredibili, un telefono nuovo fiammante. Molto fiero, l’uomo chiama per informare la moglie del suo arrivo, ma qualcosa sta andando storto; là fuori, nella notte, ci sono dei rumori, si vedono delle luci. L’uomo dapprima minimizza, poi il tutto precipita; inorridito, tra occhi strabuzzati e grida, non può fare altro che essere il testimone involontario dell’orribile morte della sua famiglia in diretta telefonica, a opera di ignoti aggressori.
Normalmente, è vero, nel Grand Guignol le efferatezze sono distribuite in maniera equa tra uomini e donne; è da notare, tuttavia, il fatto che la più grande diva di questo particolare genere sia Paula Maxa, che diventò famosa per essere ‘la donna assassinata più volte al mondo’.
“Creatura stupenda, dai grandi occhi incantatori, dai tratti fini, è riuscita a darsi sulla scena di rue Chaptal una maschera tragica, il bel volto tormentato dagli orrori da lei vissuti con tanta bravura. La sua più grande forza è l’arte con la quale ha «saputo morire». Nella sua carriera di principessa dell’orrore la fatale circostanza le è capitata all’incirca tremila volte, in sessanta modi diversi. L’acqua, il fuoco, il ferro, la corda, lo strangolamento, lo sventramento, la decapitazione, il palo, il soffocamento: tutti i cammini che recano al fatale trapasso, la signorina Maxa li ha percorsi. Così le è capitato, per duecento sere di fila, di decomporsi in scena. L’operazione durava due buoni minuti durante i quali la fanciulla si trasformava lentamente in un cadavere ripugnante. Naturalmente «il lavoro» era accompagnato da una lunga serie di quei famosi «urli di gola» di cui la signorina Maxa conservava il segreto e l’esclusiva.” Così, in bilico tra l’ammirazione e una certa dose di ironia, la Maxa viene descritta da Camillo Antona Traversi nella sua Histoire du Grand Guignol del 1933.
Per tremila volte, insomma, Paula Maxa viene uccisa con il fucile e la pistola, viene scalpata, “strangolata, sventrata, stuprata, ghigliottinata, impiccata, squartata, bruciata, dissezionata, tagliata in 83 pezzi da una spada invisibile spagnola, morsa da uno scorpione, avvelenata, divorata da un puma, strangolata con una collana di perle, ripetutamente frustata.” (vedi Ivan Cenzi su Bizzarro Bazar)
Il Grand Guignol, si diceva, nasce a Parigi; il suo apice, però, si registra a Londra negli anni Venti. Ed è proprio qui, nel 1921, che il prestigiatore Percy Selbit inventa un numero assolutamente sconvolgente.
L’illusionista immobilizza una donna, legandola con delle corde. La chiude in una bara, che sega in due da parte a parte. Quando la cassa è riaperta, la donna ne esce incolume. Il pubblico, ancora una volta, va in visibilio, e nota con compiacimento la bellezza dell’assistente che si fa tagliare a metà; è l’inizio di un cliché che durerà a lungo, ed è un inizio che avviene proprio in un momento in cui le donne sono in piazza, a manifestare per il loro diritto al voto.
È in questo clima che Percy Selbit offre 20 sterline alla leader delle suffragette, Christabel Pankhurst, per farsi segare a metà, tra le grasse risate dei suoi fans. La Pankhurst, figlia di Emmeline, fondatrice del Women’s Party, che aveva nel suo programma cose come la parità di salari tra uomini e donne, la parità di diritti nel matrimonio e un sistema di assistenza alla maternità, la Pankhurst rifiuta con sdegno, provocando il disprezzo risentito dei fans di cui sopra, che probabilmente pensarono a una mancanza di umorismo da parte sua.
Percy Selbit, va notato, inventò altri numeri del genere: ‘Stretching the girl’, un’illusione in cui la testa, i piedi e le mani della solita bella assistente legata e chiusa in una scatola vengono allungate e ritorte in maniera innaturale, e ‘Crushing a woman’, in cui l’assistente viene schiacciata in una scatola per uscirne incolume. È il numero della donna segata in due, però, che divenne famoso in tutto il mondo e ancora oggi viene replicato in maniera acritica da legioni di illusionisti.
La domanda è: ma voi avete mai pensato veramente alle implicazioni di questo numero e dell’immaginario che coinvolge? Lo scrittore, illusionista e storico della magia Mariano Tomatis l’ha fatto, nel 2013, con questo breve documentario, Donne a metà.
Guardatelo, davvero; è un’esperienza sconvolgente e un vero atto di illusionismo, perché in grado di far apparire all’improvviso la rappresentazione acritica e reiterata di un femminicidio, che nessuno aveva mai notato prima. Tutti noi, in qualche momento, abbiamo assistito allo spettacolo della donna segata in due, e tutti noi abbiamo trovato normale vedere le donne, e solo le donne, tagliate a pezzi. Guardatelo, e magari rileggetevi la descrizione di Paula Maxa e dei mirabolanti omicidi di cui è fatta vittima, e chiedetevi se non ci sia qualcosa di sbagliato in tutto questo.
Come dice Tomatis, “che cosa ci intrappola dentro storie così violente e volgari? Il punto non è proibire la messa in scena del femminicidio. Forse, però, abbiamo bisogno di parole che offrano storie più raffinate.”
Qualcuno dirà, eh, ma si sa, erano altri tempi. Davvero? Sempre citando Tomatis: “Cos’è cambiato, a un secolo di distanza? Pressoché nulla. Quarant’anni fa la signora Pankhurst si augurava che il 1973 sarebbe stato l’anno della liberazione delle donne che lavorano nella magia. Oggi le donne continuano a essere trafitte, impalate, seppellite coi i topi e schiacciate tra gli applausi. Come se il tempo non fosse trascorso.”
Ci sono, certo, nuove leve di illusionisti, sia uomini che donne, che hanno capito la portata simbolica di questo trucco e che offrono nuove interpretazioni, e Tomatis ne parla e ci racconta le loro visioni. La maggioranza, però, rimane incastrata in vecchi schemi che ripete in maniera acritica, senza fermarsi a riflettere su cosa significhino davvero.
Come se ne esce, insomma? In maniera molto semplice: “Oggi non ci è più concesso uno sguardo ingenuo. Dobbiamo interrogarci a fondo sulle storie che raccontiamo, e provare a raccontare storie diverse.”
È per questa necessità, proprio per questo bisogno, che mi piace l’idea di concludere con una suggestione proveniente dal Grand Guignol.
Lo spettacolo La cage (La gabbia), di Lucien Descaves, del 1898, vede una famiglia borghese caduta in miseria che, senza più speranze, decide di morire asfissiata. Durante l’atroce agonia, però, succede qualcosa; i due figli cominciano a riflettere su quello che sta succedendo; da una condizione familiare asfittica passano alla condizione generale di poveri e sfruttati, e da lì prendono una decisione inaudita. Per i loro genitori è ormai troppo tardi, ma i due ragazzi si precipitano ad aprire la finestra, alla ricerca di aria fresca e di una via d’uscita. “I nostri genitori sono morti dove il primo sforzo li condannava a morire, sulla breccia della proprietà,” dice uno dei due, e aggiunge il gran finale: “Spetta a noi allargare questa breccia, quelli che verranno dopo daranno l’assalto”.