Le armi che abbiamo

“Non costruite mai un sotterraneo dove non vorreste passare la notte voi stessi”.
(T. Pratchett)

Ne abbiamo già parlato qua e là: dal 4 giugno il nuovo Decreto Sicurezza è legge.

Pene più pesanti per chi occupa immobili, per chi resiste anche passivamente alle forze dell’ordine, per chi blocca strade o ferrovie. Nuovi reati come la messa fuori legge della cannabis sativa, una pianta innocua e semmai utile; nuove disposizioni sui figli delle madri detenute, con importanti ripercussioni sui loro figli; e poi le molte norme contro le proteste, che fanno il paio con l’inasprimento delle pene per reati contro le forze dell’ordine e con l’aumento dei poteri di queste ultime.

Due articoli, in particolare, sembrano usciti direttamente da un romanzo distopico: uno consente ai servizi segreti di dirigere organizzazioni terroristiche a fini di prevenzione (no, non è uno scherzo), e un altro garantisce copertura penale preventivaagli agenti per i reati commessi in servizio. Tutto questo, nello stesso paese delle bombe sui treni, nelle stazioni e nelle piazze, messe da fascisti e servizi deviati. Nello stesso paese di Federico Adrovandi, di Aldo Bianzino, di Stefano Cucchi, di Giuseppe Uva. Nello stesso paese del G8 di Genova, della scuola Diaz, di Bolzaneto, di Carlo Giuliani.

La domanda da porsi è se chi ci governa faccia finta di non sapere o se davvero non sappia che inasprire le pene contro le manifestazioni e dare potere iniquo a chi indossa le divise fa solo danni, per chiunque.

La domanda è se davvero questa gente crede che si vada a manifestare così, per puro piacere. Ed è una domanda legittima, visto che parliamo di una classe politica che ha pensato di multare chi rovista nei cassonetti, evidentemente pensando che chi cerca un pezzo di pane nella spazzatura lo faccia così, per hobby.

Chi governa un paese dovrebbe sapere — ma non lo sa: noi qui votiamo gente che non sa niente — che, se il dissenso nasce da vero malessere, da veri bisogni, troverà altre strade, non necessariamente pacifiche, per essere espresso, oppure diventerà malessere diffuso e represso con chissà quali conseguenze sociali e psicologiche.

Chi governa un paese dovrebbe sapere — ma noi votiamo gente che non sa niente — che la galera, le multe, la forza bruta come risposte ai problemi non solo non hanno mai funzionato, ma creano nuovi problemi ingestibili.

La scelta di vietare il commercio di una cannabis, innocua e controllata, non può far altro che incentivare il consumo della cannabis venduta illegalmente e mescolata con chissà quali sostanze tossiche. O davvero qualcuno pensa che così la gente smetterà di fumare quello che vuole?

La domanda è cosa costerà questa insipienza in termini di vero disordine, di salute pubblica e di profitto per le mafie.

Poi possiamo parlare anche di ideologia, di quanto vi dispiaccia vedere monumenti imbrattati per qualche ora, di quanto vi faccia incazzare il traffico bloccato dagli ambientalisti e del pericolo delle borseggiatrici, se vi piace. Ma in concreto il danno è per tutti, pure per chi li ha votati, pure per chi non collegherà mai i puntini quando sarà comunque borseggiato o quando si ritroverà sempre più spacciatori sotto casa nonostante abbia votato ancora la sicurezza, la disciplina.

O pensate davvero che aumentare i manganelli abbia mai ridotto il crimine, da qualche parte, in qualche epoca, in un qualsiasi universo parallelo? Perché no: non ha funzionato mai.

A proposito di approcci giustizialisti

Lo stesso giorno in cui veniva approvato il Decreto Sicurezza, nel carcere di Marassi scoppiava quella che sui giornali è stata definita “una rivolta” dei detenuti, e che invece la procura di Genova ha definito “un atto di solidarietà”.

Per noi, che a Marassi teniamo da qualche anno, da volontari, corsi di lettura e scrittura rivolti ai detenuti, e che negli ultimi tempi abbiamo visto con i nostri occhi un crescente e deciso peggioramento generale, è molto difficile parlarne. I fatti, messi in fila, sono atroci. 

Un ragazzo di diciott’anni appena compiuti, recluso per il furto di un giubbotto, è stato sequestrato da tre detenuti, stuprato e torturato per tre giorni – tre giorni, in un luogo dove vengono effettuati continui controlli nelle celle, dove noi stessi ci siamo presi più di un rimbrotto per essere passati troppo velocemente davanti alle guardie. Tre giorni interminabili, senza che nessuna delle – poche – guardie preposte intervenisse. La reazione degli altri detenuti è stata rabbiosa e ha innescato due ore di scontri, con tentativi di vendetta sommaria e devastazione.

E qual è stata la reazione generale, stando ai commenti da social e da bar? Qual è stata la reazione nel sapere che un ragazzino in custodia dello stato è stato orribilmente seviziato per tre giorni senza che nessuno se ne accorgesse? In sintesi: “Finché si fanno male tra di loro va bene”. 

E a poco serve raccontare le carenze strutturali, il sovraffollamento, i suicidi (sono 29 dall’inizio dell’anno), la mancanza di personale, le possibilità di recupero lasciate marcire in un clima di abbandono. A poco serve spiegare che una gran parte delle persone detenute, se sostenuta adeguatamente, può e dovrebbe fare un percorso riabilitativo per poter tornare nella società dopo aver pagato il suo debito. E niente serve spiegare che, molte volte, sono le condizioni carcerarie stesse a non renderlo possibile.

Il carcere non è una vendetta. È una misura di sicurezza, da un lato, e una struttura che dovrebbe offrire possibilità di recupero, dall’altro. Dovrebbe essere uno spazio delle istituzioni dove nessuno, fosse pure il peggiore degli uomini, può essere torturato per giorni. E chi pensa che la galera debba servire solo a punire, forse dovrebbe farsi un giro dietro quelle mura, parlare con chi è recluso, ma anche con chi ci lavora, agenti, insegnanti, volontari. Altrimenti farebbe meglio a tacere.

Per rifiatare

Dopo tanti discorsi pesi, a questo punto ribadiamo che domani, domenica 8, abbiamo l’occasione di difendere alcuni dei nostri diritti – o quelli di altri, che comunque male non fa – andando a votare al referendum. Il consiglio è di andare la mattina di domenica, in modo da far salire subito l’affluenza e rendere più probabile il raggiungimento del quorum. A ben pensarci, questa è una delle armi che abbiamo. Impariamo a usarle.

Nel frattempo…

È appena uscito in Danimarca il secondo romanzo della serie Nigra: Il punto di vista di Dio, solo con più y e k. Non sappiamo come sia tradotto e andiamo sulla fiducia, ma come sempre è una gran bella emozione.

Questa settimana sono uscite due belle recensioni a Rosso profondo, che ci fa piacere ricondividere qui, anche per ringraziare gli autori. La prima è firmata da Gianni Montieri su Huffington Post

Perché il libro ha due cuori, uno è Franca, la vittima, l’altro è la città, che viene restituita in tutta la sua bellezza e mistero. La città partecipa ai fatti, li permette, li accompagna. Paolacci & Ronco riescono a far emergere un fascino che scoprivamo nei libri di Fruttero & Lucentini e che credevamo perduto. Non diremo quale esito ha questo libro, non è il caso di privare la lettrice e il lettore, non della sorpresa finale, ma del gusto di scoprire come avanzano i due scrittori.

La seconda è uscita su LeccePrima ed è scritta da Emanuela Chiriacò:

Quella di Paolacci e Ronco è la costruzione di un puzzle composito che restituisce umanità a tutti gli attori coinvolti. Un puzzle composito come gli occhi degli insetti, occhi che, sensibili al minimo movimento, sono capaci di inquadrature grandangolari e straordinari tempi di reazione.

Rosso Profondo (Ubagu Press) è un libro intenso fondato sul rigore scientifico di due giornalisti dotati di flicker-fusion e di una lingua fluida, scorrevole e coinvolgente che armonizzando tiene incollato il lettore dalla prima all’ultima pagina.

E poi, ancora, giovedì 12 giugno saremo a Torino per presentare Rosso profondo con due presentatori d’eccezione, nonché personaggi molto importanti del libro stesso: Enrico Pandiani e Gianni Armand-Pilon. L’appuntamento è alle 18,30 al Libraccio di via Monginevro 55. Ci vediamo lì?

Per concludere con un po’ di buonumore

Sul divorzio dell’anno (almeno, a oggi è ancora così) non diremo nulla, vi basti questa immagine che sta girando sul web, come un editoriale:

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