Dal Salone a Garlasco, dai pregiudizi sulla letteratura di genere a chi legge. Qui è dove vi raccontiamo una settimana piena di cose.
Cominciamo dalla fine. Sabato, dopo la nostra intensa e strapiena giornata al Salone, con le consuete code ovunque e il solito annoso problema dei bagni e delle fontanelle d’acqua, sul treno di ritorno le nostre vicine di posto erano una madre e una ragazzina felici e cariche di libri.
“Adesso però almeno per i prossimi due mesi non si compra più nulla, eh”, ha sospirato la madre alla figlia, la quale con piglio adolescenziale si è stretta nelle spalle e si è immersa nelle pagine di un volumone di cui fino a quel momento non avevamo mai sentito parlare: il penultimo romanzo di Rokia, 23 anni, che ha iniziato su Wattpad e scrive bestseller amatissimi da adolescenti, registrando il tutto esaurito alle presentazioni.
Com’è ahinoi arcinoto, nell’ambiente letterario molta gente pensosa lamenta – O tempora, o mores! – il fatto che questi successi editoriali sottraggano lettori alla letteratura “vera” (ovvero, spesso, ai libri scritti dalla suddetta gente pensosa). Ma sarebbe forse più giusto discutere di certe devastanti logiche commerciali in editoria, che sottraggono tempo ed energie alla pluralità delle voci puntando solo su certi successi che fanno bilancio, piuttosto che infastidirsi per le file di ragazzini e ragazzine con gli occhi accesi, che corrono a farsi firmare la loro copia e chiedono all’autrice o all’autore che li ha fatti sognare: “Ti posso abbracciare?”.
Per spiegarci meglio possiamo scomodare proprio uno di quegli autori amati dalla suddetta gente pensosa, ovvero David Foster Wallace, quando diceva che la scrittura e la lettura sono un incontro tra due solitudini: due persone – chi scrive e chi legge – che scoprono di non essere sole, di avere le stesse idee, di provare le stesse emozioni nonostante il mondo là fuori. Forse insomma non ha molto senso pretendere da un’adolescente lo sforzo di apprezzare certe letture prima che abbia fatto una sufficiente esperienza di vita. A ciascuno il suo libro, potremmo dire. Quella ragazza incontrata sul treno crescerà leggendo quello che adesso le interessa, e allora cresceranno anche le sue letture. Al contrario, imporre (non solo ai giovani) letture troppo distanti dal proprio mondo emotivo è forse il modo più sicuro per rendere odiosa la lettura a chiunque.
Il punto è che l’editoria dovrebbe pensare ad accrescere il numero dei lettori che – ed è questo il vero problema – si va assottigliando di anno in anno anche perché molta gente non sa più cosa leggere. A fronte dei moltissimi libri che si pubblicano, sono pochissimi quelli davvero visibili, quelli che si trovano con facilità, quelli che vengono proposti. Pochi e spesso simili tra loro, spinti sull’onda di un marketing editoriale che invece della pluralità punta su mode e tendenze.
Ma di questo riparleremo molto presto, promesso.

Per ora ci piace condividere con voi le parole pronunciate sabato al Salone dallo scrittore amico e sodale Orso Tosco, che durante la splendida presentazione dell’ultimo romanzo di un altro scrittore amico e sodale, Vins Gallico, ha parlato con orgoglio della condizione di chi come noi si ritrova in qualche modo addosso un pregiudizio simile a quello che si nutre per i romanzi adolescenziali, vale a dire i libri di genere crime.
“Io devo dirvi la verità”, ha detto Orso con il suo tono brillantemente stralunato – o stralunatamente brillante, fate voi: “Quando sento le persone che fanno quella che definiscono ‘vera letteratura’ disprezzare ad alta voce il giallo, il noir, il crime, io provo un guizzo d’orgoglio. Perché a me piace ritrovarmi in quella dimensione artigianale che loro disprezzano, in quella condizione un po’ da operai, e più sento quel disprezzo e più sono fiero di essere da questa parte”.
Parole, sia detto per inciso, che incontrerebbero il favore di molte persone che hanno fatto la storia della letteratura, perché confondere la scrittura con una disciplina elitaria e aristocratica è un errore costante nei secoli.
La letteratura popolare può essere buona o cattiva, certo, ma – perlomeno per noi, che siamo artigiani, operai della parola, scrittori che devono lavorare per vivere, chiamateci come vi pare – è qualcosa da rivendicare, oggi come nel passato.
Ed ecco, ancora una volta, la questione di riconoscersi, di trovarsi somiglianti sia pure nelle grandi differenze delle nostre scritture, delle storie che raccontiamo, dei punti di vista che scegliamo. Un piacere raro e liberatorio, in un mondo troppo spesso fatto di gente che si odia per due copie vendute in più, per una recensione: i famosi squali che lottano in una vasca da bagno di cui parlava sempre lui, David Foster Wallace.
Quel piacere lo abbiamo ritrovato anche alla nostra presentazione di sabato mattina, che ha visto la nascita ufficiale del marchio Ubagu Press, figlio della fusione tra nottetempo e 66thand2nd.
Un editore che fin da subito si è dimostrato raro e prezioso, per l’autentico amore verso i libri e la professionalità, per l’attenzione e il rispetto riservato a chi scrive e a chi legge.

Ubagu nasce con l’obiettivo di esplorare pieghe e meandri del genere, tra giallo, noir e true crime; e nasce per l’appunto con i primi libri molto diversi eppure perfettamente di genere – a ulteriore riprova del fatto che, quando parliamo di genere, parliamo di un mare immenso: il nostro true crime si trova dunque tra Free Queens di Marin Ledun – per chi non sapesse, parliamo di uno dei più interessanti noiristi francesi contemporanei, pubblicato dalla leggendaria collana Série Noire di Gallimard – e Dimenticare Milano di Romano De Marco, maestro dell’hard boiled italiano che qui dà prova di tutta la sua maestria. Stili e libri differenti, un comune desiderio: quello di essere sinceri e onesti artigiani della scrittura, per incontrare chi ci legge lì, sulla pagina.
Perché, con buona pace dei detrattori, anche i romanzi di genere possono e anzi dovrebbero essere scritti senza trucchi da quattro soldi, come diceva Carver, e senza inutili esibizioni di stile o affettazioni, come insegnava Hemingway.
E con questo, ecco anche i nostri consigli di lettura per questa settimana:

A proposito di stanchezza
Sempre al ritorno dal Salone, comunque, con i piedi in fiamme, le orecchie dolenti e un sacco di grane che avevamo furbescamente accantonato con la tipica fase “ne parliamo dopo il Salone” – solo quattro parole, tra tante, per capirci: scuole chiuse, centri estivi – ci è capitato di leggere l’articolo di Andrea Colamedici sulla stanchezza intellettuale e sulle ritualità sempre più affaticate.
Un articolo che ha girato molto anche fuori dalla nostra bolla, cosa che ci è parsa interessante di per sé, tanto che persino qualche amico non addetto ai lavori ci ha chiesto cosa ne pensassimo.
Ed ecco, per rispondere, noi concordiamo con le molte persone che hanno fatto presente quanto simili generalizzazioni siano un errore di partenza. Ci sembra un po’ limitante, in effetti, pretendere di racchiudere in una generica “stanchezza” una fiera che ha comunque registrato ottimi numeri e che non è mai stata un luogo con l’ambizione di cambiare il mondo.
Certo, la situazione editoriale generale si incista in un contesto politico ed economico che ormai definire straziante è troppo poco. La grande domanda per noi è però casomai un’altra, ovvero: com’è che tutte queste angosce sono diventate temi importanti solo ora, quando molte e molti di noi ne parlano – inascoltati – da decenni, quando forse si poteva essere ancora in tempo per evitare certe rovine?
Perché di certe cose si parla quando è ormai tardi da un sacco di tempo?
Anche di questo parleremo, con calma.

Non c’entra, ma c’entra
Adesso saltiamo di palo in frasca, ma meno di quanto possa sembrare.
Meno perché, sempre mentre eravamo al Salone, noi che parliamo di crimini e di narrazioni dei crimini non abbiamo potuto evitare le notizie che stanno invadendo le prime pagine dei giornali sulla riapertura del caso di Garlasco.
Saremo brevi.
Chi ha letto il nostro saggio Tu uccidi sa quanto e come abbiamo riflettuto sui delitti reali, su come sono percepiti e su come ci vengono raccontati; chi poi ha già letto Rosso profondo conosce un esempio concreto di quanti errori di valutazione si possano fare, sia nelle narrazioni giornalistiche che nelle indagini stesse. L’esperienza ci ha insegnato quanto sia facile farsi un’idea sbagliata basandosi su informazioni limitate, per cui cercheremo di non commettere questo errore.
Sulla riapertura del caso di Garlasco ci preme dire soltanto un paio di cose, almeno per ora.
Per poter dire di conoscere davvero l’orribile caso in cui, giova ricordarlo, la giovane vita di Chiara Poggi è stata brutalmente spezzata, bisognerebbe di fatto leggere una marea di documenti, milioni di pagine tra verbali e analisi, e non solo le notizie. Quanto sta emergendo sembra mostrare che in 18 anni molti dettagli in apparenza importanti sarebbero stati trascurati dalle persone che ci hanno lavorato, dagli inquirenti alla stampa.
Ne consegue una seconda importante considerazione, ovvero che la verità molte volte non è lo scopo prioritario di chi per lavoro dovrebbe cercarla. Quando un caso di cronaca diventa un caso mediatico, ecco che molti dettagli si alterano, spuntano messaggi che poi non erano messaggi, biglietti misteriosi, memorie stranamente sopite, aggiungendo rumore di fondo a un caos già enorme. Non solo. Quando un giornale, una tv o un podcast mettono al centro un solo dettaglio, quel dettaglio può sembrare determinante, spiegabile solo in un modo, almeno fino a quando non saltano fuori altre possibilità.

Questo per dire che forse ci torneremo, sull’atroce omicidio di Chiara Poggi, o forse no. Forse c’è già troppa folla intorno a una vittima paradossalmente dimenticata, sul cui corpo si giocano partite che valgono soldi e chissà cos’altro. E la folla, in questi casi, ostacola la visione della realtà oggettiva.
Ci torneremo se avremo qualcosa di intelligente o utile da dire, altrimenti resteremo in silenzio, in nome del rispetto che è dovuto sempre in primo luogo alla vittima principale (e non unica) di questa vicenda.