Dalle reazioni al nuovo Papa ai casi di cronaca, la nostra mente tende a semplificare, portandoci spesso a conclusioni affrettate. Qui è dove ci chiediamo come superare le narrazioni parziali.
Tra le cose di questa settimana appena passata c’è stato un incontro online bello e intenso con il gruppo di lettura Storture di effequ, che ha scelto il nostro saggio Tu uccidi per parlarne insieme. Durante la serata, tra i vari argomenti, abbiamo discusso parecchio su come la narrazione influenzi la nostra comprensione della realtà e, di conseguenza, le nostre azioni.
Spesso, quando parliamo di fatti di cronaca, la divergenza tra opinioni dipende banalmente dalla selezione delle informazioni. Un esempio caldo sono le nostre reazioni all’elezione del nuovo Papa, durante le quali ci è capitato di ascoltare un po’ di tutto, persino le preoccupazioni di chi ha interpretato il nome Leone come segno di arroganza medievale, o chi ha pensato che la nazionalità statunitense implicasse necessariamente una vicinanza a Trump: due dettagli selezionati nel mare delle informazioni possibili, senza conoscere né la storia del nome, né quella dell’uomo.
La mente umana tende a semplificare e, se non ci sforziamo di approfondire, rischiamo per l’appunto di trarre conclusioni affrettate. Soprattutto oggi, quando la fretta e la velocità delle informazioni sono sfruttate anche dalle varie propagande, politiche e commerciali, per raccontare un mondo parziale, in cui vari elementi vengono accuratamente omessi.
Un altro esempio piuttosto chiaro e dettagliato, per chi ha già letto Rosso profondo, sono i molti elementi della vicenda di Franca Demichela che, se isolati dagli altri, sembrerebbero dimostrare senza ombra di dubbio la colpevolezza di qualcuno: una testimonianza, un alibi, un biglietto. Solo conoscendo anche gli altri elementi, si arriva a capire che invece non si tratta affatto di prove né di indizi validi o tantomeno univoci.
Per formare opinioni fondate, che vadano oltre la mera tifoseria e un sempre più irrazionale spirito di appartenenza, è essenziale leggere, studiare, informarsi; scegliere le proprie fonti, magari, ma non limitarsi a quelle; fare la tara, sempre, di tutto quello che si legge; ma soprattutto, è essenziale essere disposti a cambiare idea riconoscendo le proprie lacune.
L’assolutizzazione di alcuni dettagli è una delle ragioni principali per cui noi, persone comuni che leggono i giornali e guardano la televisione, ci dividiamo tra innocentisti e colpevolisti, favorevoli e contrari, in casi e vicende di cui conosciamo solo dettagli parziali, isolati dai contesti, raccontati in quel modo specifico per un motivo specifico oppure, semplicemente, per sciatteria e pigrizia.

Una questione di mera decenza umana
Il 9 maggio abbiamo aderito, come molte altre persone, alla mobilitazione #GazaLastDay, pur sapendo che sarebbe servita a poco o nulla. In questi lunghi e insopportabili mesi di massacro, con una popolazione civile cui sono negate acqua, cibo e medicine, con il diritto internazionale ridotto in coriandoli sanguinanti, nel tombale silenzio di stati e governi, abbiamo sentito come tantissime e tantissimi la nostra totale impotenza di fronte all’enormità degli eventi, oltre che il dolore per una catena di odio che si nutre di sangue e ingiustizia.
Può essere che inondare i social con un’immagine sia un modo come un altro per sentirsi migliori senza troppo sforzo, ma sicuramente è anche un modo per tracciare una linea certa: un modo per dire a tutti e a nessuno, come troppo spesso ci accade in questa epoca, che esistono limiti che non avrebbero mai dovuto essere superati.
A chi non lo sapesse, segnaliamo che il 7 maggio lo scrittore e poeta palestinese Mosab Abu Toha ha vinto il Premio Pulitzer nella sezione Commentary, per gli articoli che ha scritto per The New Yorker sulla devastante campagna militare israeliana a Gaza. La giuria ha elogiato il suo lavoro – “una combinazione di reportage approfondito e memorie intime per raccontare l’esperienza palestinese della guerra a Gaza” – definendolo “profondamente commovente e urgentemente necessario”.
Qui un’intervista ad Abu Toha.

Cose che ci sono piaciute
Il nostro consiglio di ascolto della settimana si ricollega al discorso fatto in apertura: si tratta del podcast Il banchiere di Dio di Nicolò Majnoni – un lavoro che racconta uno dei casi più misteriosi del dopoguerra italiano, quello di Roberto Calvi, ma non solo. Majnoni spiega di essere partito da una posizione inizialmente assai scettica: essendo di formazione per metà italiana e per metà anglosassone, in origine era abbastanza certo che la morte di Calvi fosse dovuta a un suicidio, e che le ipotesi di omicidio nascessero solo dalla tendenza tipicamente italiana alla dietrologia e a un certo complottismo machiavellico. Il puzzle che compone puntata dopo puntata lo porta a vedere però quel complotto vero, storicamente accertato, che racconta una verità italiana tanto nota quanto troppo facilmente dimenticata: quegli anni in cui nel nostro paese agivano nell’ombra uomini come Licio Gelli o Michele Sindona, muovendo quantità spropositate di denaro anche per influire sulle politiche internazionali; anni di Guerra Fredda, in cui l’Italia era territorio di scontri violentissimi e segreti, avendo il Partito Comunista più forte dell’Europa occidentale; anni in cui ci sarebbero da unire molti puntini per capire anche come siamo arrivati a oggi, sempre sforzandosi di non piegare i fatti alle proprie convinzioni, tra attentati terroristici, delitti illustri e piani di rinascita.

Il consiglio di lettura è invece l’articolo a cui avevamo accennato già la scorsa settimana, apparso su The Guardian ad aprile, ma questa settimana tradotto in italiano e pubblicato sull’ultimo numero di “Internazionale”: Fascisti dell’apocalisse, di Naomi Klein e Astra Taylor.
L’articolo racconta come l’attuale governo statunitense sia legato a una destra americana che da anni abbraccia scenari apocalittici con assurde credenze religiose, invitando a costruire bunker in previsione di un disastro globale che i leader stessi di questi movimenti, con l’altra mano, cercano di causare.
Nell’articolo si legge, tra l’altro:
Ascoltate il podcast di Steve Bannon – che si definisce il principale organo d’informazione del movimento Maga – e sarete bersagliati da un messaggio singolare: il mondo sta andando a rotoli, l’inferno è alle porte, gli infedeli stanno rompendo le barricate e la battaglia finale si avvicina. Preparatevi. L’invito a farsi trovare pronti diventa particolarmente veemente quando Bannon passa a promuovere i prodotti dei suoi sponsor. Comprate oro su Birch Gold, dice Bannon al suo pubblico, perché l’economia statunitense è troppo indebitata e crollerà, e non dovete fidarvi delle banche. Fate scorta di pasti pronti da My Patriot Supply. Esercitatevi a sparare con un sistema laser per uso domestico.
(…)
Questa mentalità del bunker ci aiuta a capire anche le discutibili incursioni di JD Vance nella teologia cattolica. Il vicepresidente degli Stati Uniti, che deve la sua ascesa politica alla generosità di Thiel, ha spiegato a Fox News che secondo il concetto cristiano medievale dell’ordo amoris, l’amore non è dovuto a chi sta fuori dal bunker: “Ama la tua famiglia, poi ama il tuo prossimo, poi ama la tua comunità, poi ama i tuoi concittadini nel tuo paese. E poi, dopo tutto questo, puoi concentrarti a dare priorità al resto del mondo” (oppure no, come sembrerebbe a giudicare dalla politica estera dell’amministrazione Trump). In altre parole, non dobbiamo niente a chi sta fuori del nostro bunker.
Una realtà che è bene conoscere, anche per capire le ragioni per cui i trumpiani – e Bannon tra questi – stanno già additando come loro nemico il nuovo Papa Leone XIV, che come è ormai noto ha risposto con fermezza proprio a quest’ultima affermazione di Vance; ma dello scontro tra Vaticano e attuale governo statunitense magari riparleremo più avanti, o almeno speriamo.

Quanto a noi
La settimana ci ha offerto più di una volta occasione per fare la ruota del pavone – sempre, ovviamente, senza dirlo ad alta voce.
Su minima&moralia è uscita una recensione straordinaria di Rosso profondo, firmata da Emanuela Cocco, dove tra l’altro si legge:
In “Rosso profondo” il fatto di cronaca nera diventa un’occasione privilegiata per passare al setaccio l’Italia di quel tempo, alla ricerca di nuove piste investigative ma anche di nuovi percorsi di pensiero e messa in discussione di pregiudizi che ai tempi della notizia, non erano considerati tali. Con uno stile pulito, apparentemente impassibile e proprio per questo capace di trattare con rispetto e compassione una storia incandescente come quella della signora in rosso, Paolacci e Ronco ci accompagnano in un viaggio spaventoso, a tratti commovente, quello di un delitto spregevole e di una vittima avvertita come sbagliata, una storia pieno di tensione e di rammarico, dove nessuna domanda è destinata all’oblio e tutto, fino all’ultima parola scritta, sembra restare in gioco, nel tentativo di chiamarci in causa, di farci prendere posizione, al banco dei testimoni per dire la nostra sulla morte dell’altro che, vicino o distante da noi, è sempre anche un po’la nostra.
Anche Antonia Del Sambro, su “La bottega del giallo”, ci regala una lettura generosa e attenta:
Antonio Paolacci e Paola Ronco in questo thriller ispirato a un fatto reale di cronaca nera in alcune pagine fanno i bravi scrittori, in altre fanno gli eccezionali cronisti e altre ancora si cimentano perfino come detective. Il risultato è un romanzo che si divora pagina dopo pagina e che fa riflettere su quanto la narrativa italiana di genere sia a un livello talmente alto per struttura, stile e linguaggio che dovrebbe essere la più tradotta al mondo.
Per chi poi volesse, su “Salotto Giallo” è uscita una nostra intervista in cui raccontiamo un po’ di cose sulla gestazione di Rosso profondo, sul true crime in generale e anche su Torino.