Dagli anni Novanta a oggi, il modo paternalistico di sottolineare le responsabilità delle vittime di femminicidio è sempre lo stesso: qui è dove cerchiamo di ragionare sulle narrazioni giornalistiche
Da quando abbiamo cominciato a scrivere a quattro mani non si contano le volte in cui ci è capitato di discutere tra noi, anche piuttosto animatamente, sui modi di raccontare, sui punti di vista da adottare, sul taglio da dare a un lavoro. Questa newsletter non fa ovviamente eccezione, e infatti stiamo trascorrendo il fine settimana a discutere di come parlare delle narrazioni giornalistiche degli omicidi, e in particolare dei femminicidi, senza che ci sembri di ripetere sempre la stessa solfa.
Perché questa, davvero, è una cosa che non cambia mai, e ci pare, davvero, di averne parlato talmente tante volte da suonare banali.
Quando abbiamo deciso di dedicare un libro alla morte violenta di una donna poco convenzionale come Franca Demichela, avvenuta nel 1991, sapevamo già che cosa avremmo trovato nei resoconti giornalistici dell’epoca: palate di paternalismo, giudizi non richiesti, raffiche di ‘se l’è cercata’ talmente fitte che non c’era nemmeno bisogno di scriverlo esplicitamente. Quello che non sapevamo ancora era che quei resoconti non erano mica tanto diversi da quelli odierni. Pare assurdo eppure è vero: con il passare degli anni ci sono stati alcuni indubbi passi avanti nelle maniere di raccontare in cronaca i femminicidi, ma sono tutti cambiamenti lentissimi e quasi sempre solo nella forma, non nella sostanza.
L’abbiamo visto nel corso dell’ultima settimana, quando altre due giovani donne sono state uccise da uomini incapaci di gestire il rifiuto. Sara Campanella e Ilaria Sula sono la decima e l’undicesima vittima di femminicidio di quest’anno – e siamo solo all’inizio di aprile.
Due delitti atroci, gli ennesimi, caratterizzati da dettagli che tendono a tornare in maniera agghiacciante in questo genere di crimini: l’ossessione malsana, la persecuzione nonostante i reiterati rifiuti, i corpi delle donne massacrati e abbandonati come oggetti ormai inservibili, uno per strada, davanti a chiunque, l’altro rinchiuso in una valigia e gettato in un dirupo.
Un copione che si ripete, in troppi dettagli, uguale a sé stesso.
Tra le altre costanti che tornano inesorabili c’è anche la cecità con la quale gli organi di informazione raccontano le vicende, e i conseguenti commenti che si trovano un po’ ovunque.
“Due anni di stalking, ma lei non aveva mai denunciato”; “Il killer era invaghito da due anni, lei lo ha sottovalutato”, “Le amiche potevano aiutarla a denunciare”, senza contare l’attacco dell’articolo sul Corriere della sera (firmato da una giornalista) nel quale si può veramente leggere questo: “Sul suo profilo Facebook aveva scritto: «Mi amo troppo per stare con chiunque». Un’affermazione di indipendenza che potrebbe essere stata fatale”.
Se lo stesso giornalismo si esprime in questo modo, sottolineando cioè le responsabilità delle vittime per quello che hanno subito, è perché parliamo di un modo di pensare radicato nella nostra cultura. Per questo è difficile vederlo, e per questo parliamo di cecità.

I commenti e resoconti di questi giorni sono soprattutto legati al caso di Sara Campanella; per Ilaria Sula, d’altro canto, le origini filippine del suo assassino hanno fornito l’appiglio per far dire a ministri e commentatori qualunque che beh, certo, alcune etnie non hanno la nostra notoria sensibilità verso le donne.
Supponiamo che ci si riferisca alla stessa sensibilità che porta anche i maschi di “etnia italiana” ad affannarsi per mantenere il ritmo di una donna uccisa ogni tre giorni circa. Ma neppure questa è una novità: nel delitto di Franca Demichela accadeva qualcosa di molto simile, dal momento che tra i sospettati rientravano, oltre al marito, tre nomadi slavi, la cui etnia è da sempre ritenuta meno “sensibile” della nostra. Succedeva trentaquattro anni fa e succede oggi, ma oggi forse il pregiudizio è perfino più sfacciato, perché viene rivendicato da istituzioni e governo: la dissonanza cognitiva, si sa, è un po’ come l’universo, in espansione.
L’unica cosa un po’ differente rispetto agli anni Novanta è quella galassia del disagio incel di cui comunque si parla da tempo, ma che solo recentemente è diventata un argomento mainstream a seguito della serie Adolescence. Nei commenti di questi uomini, l’orrore diventa ancora più abissale, perché è esibito con orgoglio. Leggiamo i loro sberleffi a Campanella e Sula, colpevoli di aver “tirato troppo la corda” illudendo i loro assassini; leggiamo frasi come: “Ne ho conosciute tante così, poi incontrano il matto di turno e piangono”.
“Piangono”, si badi bene: non “muoiono”, come sarebbe più onesto dire: la psicologia insegna che queste persone hanno una visione talmente distorta della realtà da pensare alla morte inflitta come a una “lezione” che induce al “pianto”, o come a un “aggiustamento” di un equilibrio, invece di vederla per ciò che è, ovvero come un evento definitivo, dopo il quale non solo la vittima non “piangerà” mai più, ma lo stesso carnefice avrà la vita rovinata per sempre.
E poi, “il matto di turno”, già: un’altra idea utile a darsi l’illusione che soltanto uno “diverso da me” possa arrivare a uccidere. Il che è molto consolante, ma ormai sempre più chiaramente falso, dal momento che poi, quando sondiamo le vite dei colpevoli, difficilmente troveremo gente vestita da Napoleone o con la bava alla bocca: troveremo invece pacifici impiegati, studenti modello, padri premurosi o insospettabili compagni di padel.

Il problema della cecità del fenomeno si estende però ben oltre le cosiddette bolle incel. Come abbiamo detto, lo possiamo notare in molto giornalismo mainstream e, inutile dirlo, anche nella politica.
È da quest’ultima che arriva il pugno di ferro legislativo, che giusto nelle ultime settimane ha annunciato l’ergastolo come pena prevista per il reato di femminicidio: una misura che chiunque conosca un minimo le dinamiche dei delitti in questione sa che non sarà affatto deterrente. Ma è chiaro che la deterrenza non è il punto, per chi cerca soltanto il consenso immediato.
Il primo passo per affrontare il problema dovrebbe essere piuttosto la presa di coscienza di quanto tutto questo risulti invisibile a troppe persone, proprio perché radicato nella nostra cultura.
Osserviamo per esempio i “buoni consigli” su come non farsi ammazzare, che abbondano tanto sui social quanto sugli organi di informazione – peraltro sempre e soltanto poco dopo che del sangue è stato sparso: “ragazze, imparate a riconoscere i segnali”, “andate a fare un corso di krav maga”, “chiedete aiuto alle famiglie, alle amiche, alla polizia”.
Basta andare un po’ più a fondo per capire quanto siano superficiali, questi consigli, se presi singolarmente e senza un discorso omogeneo. Perché va bene riconoscere un ceffone rispetto a una carezza, ma il punto sarebbe capire come si costruisce quella cultura del ceffone attraverso migliaia di precedenti carezze, per esempio, e soprattutto su quali basi sociali e psicologiche si radichi l’idea che gli uomini siano “autorizzati” a distribuire carezze e ceffoni alle “loro” figlie, mogli, fidanzate.
E vanno bene, benissimo, i corsi di autodifesa, che però possono aiutare solo contro un certo tipo di aggressione fisica diretta, mentre qui si tratta spesso di abusi psicologici costanti, manipolazioni e aggressioni armate.
Per quanto poi riguarda il chiedere aiuto, non abbiamo certo bisogno di ricordare i numerosi racconti di quante si siano rivolte alle famiglie o alle forze dell’ordine per esserne soltanto sminuite o ignorate, con il risultato di una maggiore umiliazione o, peggio, con la conseguenza che le stesse future vittime si convincano di non correre alcun pericolo.
Questi consigli presi fuori contesto sembrano insomma l’ennesimo pannicello caldo su una ferita suppurante, che andrebbe trattata costantemente, pur nella consapevolezza triste che un serio discorso culturale ci metterà ancora delle generazioni a radicarsi come si deve, specie se la retorica continua a fare passi indietro invece che in avanti.

Quando abbiamo deciso di raccontare la morte di Franca Demichela non sapevamo – perché mai è stato appurato – se si trattasse di un femminicidio o meno; ma sapevamo che la vicenda poteva essere emblematica anche per questo.
All’epoca, negli anni Novanta, l’opinione pubblica si era divisa tra due fazioni, che in qualche modo corrispondono a due opposte anime italiane, sempre le stesse: la prima era certa della colpevolezza di alcuni “zingari” che la vittima frequentava, l’altra indicava l’assassino nel “rispettabile” marito, impiegato della Fiat. In entrambi i casi, però, gran parte della responsabilità della sua stessa morte era attribuita a lei, alla vittima.
Per oltre trent’anni, la figura di Franca Demichela è stata oggetto di critiche e giudizi, quasi mai accompagnati da quell’elementare pietà umana che andrebbe sempre usata per chi perde la vita in modo violento. Perché Franca Demichela era una delle vittime meno vittime che abbiamo mai incontrato: non era giovane né ingenua; non era una brava ragazza angelica né una moglie accomodante. Era una donna che amava vestirsi e truccarsi in maniere vistose, che andava in giro coperta di gioielli, che dava confidenza agli uomini, soprattutto a quelli più giovani e agli stranieri. Era una donna che tradiva e insultava il marito alla luce del sole. Era una donna che aveva degli strani traffici e una serie di conoscenze misteriose.
Nella classifica delle vittime con cui è facile empatizzare, tra tante giovani donne dall’aspetto tenero o persino infantile, Franca Demichela occupa sicuramente uno degli ultimi posti. Eppure era una vittima eccome: strangolata a mani nude e gettata da un cavalcavia come un oggetto di cui disfarsi. E raccontarla come responsabile del proprio tragico destino si è rivelato un problema concreto anche dal punto di vista della giustizia, perché ha finito per compromettere in maniera irrimediabile le indagini su chi l’ha uccisa.