Di Antonio Paolacci
“Non tutti gli uomini”, si dice.
Molte persone sostengono cioè che sarebbe in atto un’ingiusta “colpevolizzazione degli uomini in quanto tali”. Reagiscono così a chi, come Elena Cecchettin, chiede a noi maschi di assumerci le nostre responsabilità, quando si parla di femminicidio.
Proviamo a considerare quello di cui stiamo parlando, possibilmente senza pensare a schieramenti e polarizzazioni.
Primo punto: responsabilità e colpa non sono la stessa cosa. Quindi parlare di “colpevolizzazione” quando si chiede di assumersi una “responsabilità” è una reazione fuori fuoco.
Ha senso, semmai, chiedersi quale responsabilità avrebbero gli uomini che non hanno colpa.
Quale sarebbe per esempio la responsabilità di un uomo come me?
Anche io ho dovuto rifletterci per capirlo, a suo tempo, cioè da ragazzo. Non solo perché sono un maschio. Ma anche perché noi tutti e tutte, uomini e donne, viviamo nella cultura che viene qui messa in discussione. E quando si mette in discussione la cultura in cui si vive bisogna prima “vederla”, il che non è automatico.
Tutte e tutti siamo un po’ come quei pesci della famosa storiella raccontata da David Foster Wallace, dico i pesci che non sanno cosa sia l’acqua semplicemente perché non hanno mai conosciuto altro che acqua.
La reazione è infatti identica: “Patriarcato? Quale patriarcato?”
Perché i pesci “vedano” l’acqua in cui nuotano bisogna che facciano uno sforzo per uscirne. E no: non basta nemmeno essere donne (cara Giorgia), anche tutte le donne nuotano nel patriarcato, e quindi non tutte sanno riconoscerne i danni: alcune lo vedono e ne escono, altre no, e altre ancora lo rafforzano perfino.
Allora, cos’è l’acqua di cui stiamo parlando?
Facciamo un esempio.
(Ma anche qui occhio alle parole: è un esempio, non un paragone. Riguarda una cosa diversa, con molte differenze. Serve a spostare il punto di vista, non a dire che una cosa è uguale all’altra).
Pensiamo alle società bianche in cui le persone di origini africane non potevano andare a scuola, non potevano sedere in autobus o usare gli stessi bagni delle persone bianche. E pensiamo a una persona che, all’interno di queste società istituzionalmente razziste, dove perfino le leggi dicono che “loro valgono meno di te”, uccide una persona nera, magari solo perché si è permessa di dire un no.
Si può sostenere che il colpevole di quel singolo delitto sia solo uno? Sì, certo.
Ma si può negare che la responsabilità di quel delitto sia collettiva, sociale, perfino istituzionale?
Si può negare che quel delitto sia frutto di una “cultura” che rende quel delitto più possibile (più frequente)?
Anche nell’America schiavista c’erano molte brave persone bianche che trattavano bene quelle nere: le rispettavano, non le picchiavano, magari le aiutavano se ne incontravano qualcuna in difficoltà.
Però, nello stesso tempo, non chiedevano l’abolizione della schiavitù.
Non facevano nulla per cambiare la cultura e le leggi di un paese che diceva continuamente “loro valgono meno di voi”.
Non reagivano, non isolavano chi faceva battute razziste, non cercavano di cambiare quella “cultura”.
E di sicuro si sentivano innocenti: del resto loro non picchiavano, non uccidevano e magari nemmeno sfruttavano.
“Non tutti i bianchi” nelle società razziste uccidevano persone nere. Proprio come “non tutti gli uomini” nelle società patriarcali uccidono le donne. Ma tutti i bianchi avevano la responsabilità di non combattere quel razzismo di fondo, quel razzismo culturale che poi sfociava (frequentemente) nella violenza e nella morte.
Ora, noi viviamo in una società con evidenti disparità di trattamento. Il fatto — per dirne solo uno — che le donne guadagnino meno degli uomini non è una causa diretta dei femminicidi, certo, ma contribuisce a una cultura dove “loro valgono meno di noi”, una cultura dove le si incita a essere mogli e madri di maschi, prima che persone. Una cultura dove avere mogli o fidanzate libere e indipendenti, per molti uomini, è un problema.
Quando una donna chiede aiuto alle forze dell’ordine sentendosi minacciata dal fidanzato o dal marito, le istituzioni possono reagire in due modi totalmente diversi. Possono considerare quella donna in vero pericolo, cercare modi per impedire che subisca violenza o che venga uccisa. Oppure possono ignorarla, sminuire la sua paura, perfino giustificare la rabbia dell’uomo, magari supponendo che possa avere pure ragione a odiarla. Questo dipende anche dalla cultura di chi riceve quella richiesta di aiuto. Dipende dalla sua formazione, dall’acqua in cui nuota da sempre, dal suo pregiudizio e da quel che pensa delle donne.
Eccola, la responsabilità: quando in Philadelphia Denzel Washington si accorge di non sopportare l’omosessualità, all’inizio non si sente in errore: vive in una società dove l’omofobia è norma, il disprezzo per i gay è culturale, endemico, e per questo invisibile. Si sente un maschio “normale” che “non ha nulla contro i gay”, solo che preferisce non averci a che fare. Non ha colpe dirette, perché non ha mai insultato o picchiato o ucciso nessuno. Però non ha mai neanche “visto” i danni che fa l’omofobia culturale in cui lui stesso nuotava.
Il momento in cui li vede, quei danni, è quando sente il pregiudizio sulla propria pelle. E a quel punto capisce di avere delle responsabilità.
È questo che Elena Cecchettin ci ha sbattuto in faccia.
Non siamo additati singolarmente e personalmente come assassini potenziali. Siamo pesci a cui si sta spiegando prima di tutto cosa sia l’acqua. E poi che è nostra responsabilità cambiarla.
Non è facile?
Boh, secondo me non è neppure difficile.
Proviamo anzitutto ad ascoltare, prima di metterci sulla difensiva e di negare quel che ci stanno dicendo. Proviamo a pesare bene le parole: quelle che ascoltiamo e quelle che usiamo noi. E proviamo a capire di cosa si parla quando si dice che la violenza e l’uccisione di donne nel nostro paese è un dramma reale, con numeri impressionanti, e che è quindi responsabilità di ogni persona uscire da quest’acqua.