Circuito chiuso: per ricordare Giuliano Montaldo

di Paola Ronco

L’altra sera ho pescato in maniera del tutto fortuita e strabordante di serendipity un tesoro di Giuliano Montaldo, che ci ha lasciati da pochi giorni.
Si intitola Circuito chiuso, è del 1978 ed è un film che per ragioni contrattuali non è mai passato al cinema, pur essendo acclamato al Festival di Berlino, ed è stato trasmesso in Rai in epoche che, se pensi all’oggi, ti viene il magone.
La trama è strepitosa: cinema romano di periferia, proiezione pomeridiana di uno spaghetti western, pubblico vario. Nel momento clou del duello con il cattivo, l’eroe Giuliano Gemma spara in primo piano, e bang!, va giù anche uno spettatore, colpito al cuore da un colpo di pistola.
Panico in sala, arriva la polizia, blocca tutti e, non sapendo che pesci pigliare, prova a far ripetere la scena per capire la dinamica. Riparte il film, torna Gemma in primo piano, spara e bang!, muore anche il volontario che si era seduto al posto della vittima.
Il finale non lo racconto perché sarebbe un delitto, ma c’è una sequenza straordinaria e ansiogena che andrebbe fatta vedere obbligatoriamente a un sacco di gente che non cito e che riesce a fare brutti e insensati pure i trailer.
Chiaro, è un film degli anni Settanta, quindi ha un ritmo particolare e molte lungaggini di suo. Ma quell’atmosfera dei cinema di una volta, le sedie di legno, il bar; e i personaggi, ognuno a raccontare la storia di un’epoca: la coppia di ragazzini e quella clandestina, l’uomo deriso da tutti e trattato come un freak che aspetta nei bagni degli uomini (tanto per rispondere a quel post cretino corredato da immagini di Boy George e dei Bronski Beat, che viene riproposto a ondate sui social peggio dell’influenza stagionale, che lamenta quanta poca omofobia ci fosse una volta, “prima” di cominciare a farsi tutte quelle menate, e come si stesse bene allora), la vecchina diabolica accompagnata dalla figlia esausta, e soprattutto il sociologo che invece di guardare il film prende appunti – un Flavio Bucci enorme. E poi i poliziotti, il cui acume investigativo è inversamente proporzionale al grado – il commissario sveglio, il vicequestore arrogante, il questore tronfio.

Due momenti sopra gli altri, in questo film inquietante che coglie in pieno la fascinazione del tempo per il sovrannaturale e i primi sintomi del riflusso, raccontando il rapporto complesso tra le immagini e la realtà, lo spettacolo e lo spettatore.
La scena in cui nel cinema vengono portati alcuni televisori, come da richiesta delle persone tenute rinchiuse nel cinema in attesa che si capisca chi è l’assassino – una nota non da poco: queste persone sono letteralmente tenute sotto sequestro dalla polizia, e quello che chiedono è di poter guardare la tv, non di incontrare un avvocato. Uno degli schermi trasmette immagini di una manifestazione femminista, le persone che guardano sono distratte, poi uno si alza ed esclama: Guardate, di là trasmettono i cartoni animati! Entusiasmo generale, le poche persone che stavano guardando le donne con le dita messe a triangolo si alzano e vanno a guardare Duffy Duck sull’altro schermo.
E poi, soprattutto, la cocciutaggine spietata della vecchina carina e diabolica che, invitata dalla polizia a lasciare il cinema “insieme ai vecchi e ai bambini” per motivi di sicurezza, picchia stizzita il bastone in terra: Io di qui non me ne vado, dice e ripete. Ho pagato il biglietto, io, e adesso voglio vedere come finisce il film.
Dolorosamente reale, come una metafora.

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