di Paola Ronco

Questa vecchia raccolta di romanzi gialli è uno di quei tesori preziosi che conservo tra gli strati di vite precedenti. Negli anni di quella che sarebbe dovuta essere la mia formazione ho letto ossessivamente romanzi sudamericani, poi monumentali fantasy, poi di nuovo sudamericani, ma sempre, sempre intervallando queste passioni del momento con i romanzi gialli che saccheggiavo dagli scaffali di mia madre. Prima Agatha Christie, tutta, con il mio chiedermi chi fosse meglio tra lo stravagante Hercule Poirot e l’intrigante Miss Marple, poi Carter Dickson aka John Dickson Carr, che mi faceva ridere forte con le imprecazioni colorite e antiquate di sir Henry Merrivale. E ovviamente, sempre, uno dei miei primi amori letterari, il sociopatico e geniale Sherlock Holmes.
Poi è arrivata lei, Anne Perry, che mi ha preso il cuore in qualche punto tra la fine del liceo e l’università, segnandomi l’immaginario e facendomi innamorare follemente dell’ispettore Thomas Pitt. Ho ripreso in mano il primo della serie, che apre questa raccolta, dopo almeno una ventina d’anni che non lo rileggevo; l’ho fatto per nostalgia, per curiosità, perché l’estate per me è sempre stata il ricordo di una versione precedente di me, che aspettava le vacanze per passare le giornate a leggere gialli, e poi la sera stare su fino a tardi per guardare Il tenente Colombo, Perry Mason o La signora in giallo.
All’epoca non sapevo niente di Anne Perry e della sua storia incredibile. Non sapevo che era nata con un altro nome, e che ad appena quindici anni era stata coinvolta nel terribile omicidio della madre della sua migliore amica – una storia oscura, che forse avrete visto raccontata in un paio di film. Una storia fatta di ossessione, forse di un amore che per l’epoca non sarebbe dovuto esistere, due ragazzine sole contro il mondo, l’efferatezza che lascia senza fiato, cinque anni di carcere e poi una nuova vita, l’arte, la scrittura salvatrice.
All’epoca non sapevo molte altre cose. Sentivo che avrei voluto scrivere anch’io delle storie come quelle di Anne Perry, ma non sapevo come fare, non credevo nemmeno che fosse possibile. All’epoca credevo che le persone che scrivevano fossero di un’altra specie, sicuramente non simile alla mia. E credevo che anche i criminali fossero di un’altra specie; esattamente come lo credono i personaggi altolocati che compaiono ne Il boia di Cater Street, primo romanzo di Anne Perry (1979). Ed è proprio l’ispettore Pitt a farlo notare alla giovane Charlotte, figlia ribelle di gente altolocata che parla troppo sinceramente per avere una vita facile. Lo chiede proprio, a un certo punto: ma chi credete che siano esattamente, i criminali? Dei mostri che arrivano da fuori, uccidono e poi tornano nei loro covi?
Charlotte non lo sa, non sa tante cose, nemmeno lei. Le donne del resto non devono occuparsi di queste brutture, loro devono solo cercare un marito, allevare figli, andare in parrocchia e onorare i maschi, in quell’epoca – e come passa il tempo, quando si continua a ricascare negli stessi schemi, eh?
Una cosa, però, le è molto chiara: quel poliziotto sempre spettinato, che parla come un gentiluomo pur appartenendo a una classe inferiore, non le è affatto indifferente.
Sarà un misterioso strangolatore di ragazze, che sulle prime fa tanto pensare a Jack The Ripper, a costringere Charlotte a fare i conti con la vita reale: a farle capire che no, i criminali non sono mostri, non vengono necessariamente dai bassifondi e non passano il tempo a essere esclusivamente assassini e criminali – e qualche volta sono lacerati da un dolore atroce per cui non sembra esistere consolazione; e a farle capire che è di gran lunga preferibile scendere un gradino nella scala sociale, facendo una cosa rivoluzionaria come sposare un poliziotto, che restare negli agi e ritrovarsi a vivere una vita falsa, bella soltanto nella facciata, in cui non si scende mai nel cuore delle cose per paura di vedere la realtà.
Va detto, Il boia di Cater Street, come tutta la serie dedicata all’ispettore Pitt, non è un capolavoro; forse è responsabile anche una traduzione un po’ sciatta, non so dire, ma comunque ci si trovano tanti piccoli difetti, alcune incongruenze, cose che certo farebbero arricciare il naso a tutta quella gente che da decenni ignora i romanzi di genere perché “sarà mica letteratura, quella”. Eppure anche in queste pagine editate male, con qualche spazio messo a caso, si può sentire forte e chiara la voce di una scrittrice vera, che ha visto gli abissi più profondi ed è riuscita a risalirne per portarci in un’epoca fatta di nebbie e carrozze, di ricchezze ostentate e miseria atroce, di ipocrisie e vite spezzate. Un’epoca molto più vicina a noi di quanto possiamo sopportare di pensare.